RELAZIONE INTRODUTTIVA ALLA SESSIONE INTERNAZIONALE DEL CONGRESSO
di Valerio Torre
La situazione mondiale è caratterizzata dalla crisi e dall'instabilità della dominazione capitalista. Da un lato, i capitalisti attaccano la classe operaia per mantenere la loro capacità di fare profitti; dall'altro, la classe operaia resiste.
Da un punto di vista economico, la crisi capitalistica si può riscontrare nel massiccio eccesso di capacità e di sovrapproduzione del capitale su scala mondiale; nella crescente disuguaglianza di ricchezza e di salario; nello sviluppo della speculazione e del carattere parassitario del capitale finanziario ad un grado mai visto dagli anni ‘20 (si pensi che negli Usa i profitti del 2006, in proporzione del Pil, sono notevolmente più alti che nel 1929, quando, prima del grande crollo, l'economia americana ribolliva); nelle sempre più ricorrenti crisi finanziarie; nell'incapacità del capitalismo di offrire una qualsiasi prospettiva di sviluppo nei paesi dipendenti; nel terrore dei capitalisti di un brusco risveglio dopo aver fatto man bassa di profitti negli anni ‘90 segnati dalla speculazione finanziaria.
È di questi giorni il dibattito fra gli economisti sul tipo di impatto che il forte rallentamento in atto dell'economia americana avrà a livello globale: fra le posizioni di chi immagina una frenata molto brusca dei mercati statunitensi con un passaggio dall'attuale fase di crescita recessiva (cioè di crescita che porta con sé un aumento della disoccupazione) ad una fase di vera e propria recessione, con una recrudescenza del protezionismo Usa; e quelle di chi, invece, ritiene più plausibile - dopo quattro anni di boom espansivo - un atterraggio morbido dell'economia americana ed una conseguente pausa non drammatica dell'economia mondiale. Ed il segno di quest'incertezza sta in un'eloquente dichiarazione del vicepresidente della Federal Reserve, Donald Kohn, che ha recentemente affermato: «Non siamo sicuri di come sia andata l'economia, di come stia andando, né di come andrà».
Sta di fatto, però, che l'alternarsi di cicli di crescita e cicli recessivi connota la situazione complessiva come fase di stagnazione, in cui i capitalisti tentano di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto attraverso l'aumento del tasso di sfruttamento. Questa fase sembra essere destinata a durare, poiché gli indicatori economici non fanno pensare ad un collasso del sistema, né suggeriscono un suo riequilibrio.
Sotto il profilo squisitamente economico, quindi, il vero problema del capitalismo è il disequilibrio e la stagnazione; la sua vera ricetta è l'attacco ai lavoratori.
Da un punto di vista politico, invece, la tendenza delle masse a resistere si può riscontrare nella serie di esplosioni sociali ad ogni latitudine del mondo, caratterizzate da sollevazioni popolari e scioperi, sia operai che studenteschi.
Dopo che, nel 1991, l'Unione Sovietica cadde vittima delle sue contraddizioni interne e della pressione imperialista e collassò su se stessa, i capitalisti erano convinti di poter imporre un "nuovo ordine mondiale"; proclamarono la "fine della Storia", prefigurando un'epoca in cui la lotta di classe sarebbe scomparsa e la questione della trasformazione di questa società non sarebbe più stata all'ordine del giorno. La politica dell'imperialismo dei primi anni ‘90 è stata improntata al neoliberalismo in abiti formalmente democratici, all'insegna della vecchia ricetta del "laissez faire, laissez passer". La democrazia borghese, infatti, implica il minimo di coercizione ed il massimo di coinvolgimento della classe operaia: cioè il minimo investimento possibile di profitti per il controllo della classe operaia. Ne abbiamo una riprova proprio oggi in Italia con la rapina del Tfr: il capitalismo, come sostiene con dovizia di argomentazioni il giornale della Confindustria, Il Sole 24 Ore del 30 dicembre scorso, giustifica il passaggio forzoso dei lavoratori ai fondi pensione come - cito testualmente - «la sfida di far partecipare alla crescita del capitale anche i lavoratori tramite l'adesione ai fondi pensione e la diffusione dell'investimento azionario consapevole»; cioè come «un'altra via per meglio distribuire l'aumento dei profitti». E nello stesso senso vanno le proposte di Confindustria stessa di compartecipazione dei lavoratori ai rischi d'impresa attraverso la contrattazione aziendale legata all'andamento del ciclo produttivo in cambio dell'azzeramento della contrattazione collettiva nazionale: si tratta, appunto, del progetto del padronato di attrarre sempre più a sé la classe lavoratrice per legarla ai suoi destini per indebolirne la potenzialità di rottura come classe contrapposta. E ben venga se, come sottoprodotto per ottenere il controllo delle dinamiche di massa, la borghesia riesce anche a guadagnarci (intercettando nei fondi pensione il salario differito del Tfr, oppure azzerando la contrattazione collettiva e, quindi, i diritti dei lavoratori).
Tuttavia, oggi, a voler verificare gli esiti degli incauti proclami sulla fine della Storia, la scomparsa della lotta di classe, il predominio del sistema capitalistico come unico e migliore dei mondi possibile, si può affermare, senza tema di smentite, che il capitalismo non è riuscito a stabilire un nuovo equilibrio, né politico, né economico.
Nonostante le previsioni di alcuni osservatori, compresi quelli di sinistra, circa la possibilità di una nuova e duratura espansione economica a largo raggio, a livello globale appunto, il massiccio eccesso di capacità e di sovrapproduzione, le rivalità interimperialistiche e la resistenza dei lavoratori, non consentono ai capitalisti di trarre vantaggio dai progressi tecnologici; essi non possono più fare quelle concessioni che sarebbero necessarie per garantire la pace sociale e permettere che il sistema funzioni. Il nuovo ordine sociale è fallito.
Dalla metà degli anni ‘90, i lavoratori hanno iniziato ad opporre resistenza all'ordine neoliberale. Lotte di classe e lotte sociali si sono ripresentate sempre più frequentemente e l'avanguardia della classe operaia ha cominciato a riprendersi dallo shock, dalla confusione e dall'arretramento indotti dalle sconfitte degli anni ‘80 e ‘90 e dal crollo dell'Urss, cercando di comprendere le ragioni delle sconfitte e la maniera di superarle.
Tuttavia, lo sviluppo della lotta di classe non è ancora giunto ad un livello tale da poter minacciare la dominazione capitalista su scala mondiale. Al momento, i capitalisti hanno ancora la possibilità di continuare a portare i loro attacchi contro la classe lavoratrice ed il proletariato, manovrando all'interno dello spazio relativamente stretto che va dal centrodestra al centrosinistra, senza necessità di ricorrere diffusamente ai fronti popolari stile anni ‘30, alle dittature militari od al fascismo. Però, l'incapacità dei capitalisti di rendere stabile il sistema, da un lato; e la resistenza che oppongono le classi subalterne, dall'altro, dimostrano che la prospettiva rivoluzionaria - sullo sfondo del fallimento dello stalinismo, della crisi del riformismo e del crollo delle esperienze socialdemocratiche - è più che mai attuale: la soluzione della classe operaia alla crisi capitalista è la rivoluzione mondiale!
I settori più aggressivi del capitalismo (come l'amministrazione Bush), che, dal canto loro, hanno il polso della situazione che si va determinando, hanno approfittato dell'attacco alle Twin Towers del 11 settembre 2001 per teorizzare la c.d. "guerra preventiva al terrorismo". Hanno individuato una serie di obiettivi strategici - vitali per l'economia ed il sistema imperialistico nordamericano - al fine di imporre quel "nuovo ordine mondiale" che a Bush padre non era riuscito di instaurare, nonostante i proclami in tal senso, con l'aggressione all'Iraq del 1991. Quest'opzione bellicista - che non si limita all'attacco ed all'occupazione dell'Afghanistan nel 2001 e dell'Iraq nel 2003 (preceduti dalla guerra dei Balcani), ma comprende anche l'intervento militare nelle Filippine ed in Colombia e la costante minaccia a Siria, Corea del Nord ed Iran - ha l'obiettivo di riaffermare la supremazia militare degli Stati Uniti rispetto a quei paesi che potrebbero essere potenzialmente "nemici" od in competizione con loro; ma, nel contempo, tende a comprimere sempre di più i diritti dei cittadini e le conquiste dei lavoratori attraverso le cc.dd. "misure antiterrorismo".
Tuttavia, l'imperialismo Usa incontra una serie di problemi, come dimostra l'impasse in Afghanistan e, in misura molto maggiore, in Iraq, dove attualmente l'amministrazione Bush non ha la possibilità immediata di stabilizzare la situazione. L'imperialismo americano vorrebbe già passare alla prossima guerra, ma non riesce a tirare fuori dalle secche irachene le truppe impegnate. D'altro canto, la stessa opinione pubblica americana si sta spostando su posizioni critiche rispetto alle politiche di Bush: certo, non in relazione agli obiettivi, ma quantomeno in relazione ai mezzi impiegati. In questo senso, va segnalato il memorandum prodotto nelle scorse settimane dalla Commissione Baker che ha indicato all'amministrazione Usa le linee per una limitata exit strategy tendente a mantenere il controllo nordamericano in Medioriente con un minimo coinvolgimento militare.
Di qui - e tenendo comunque presenti le contraddizioni che attraversano il governo statunitense (Bush ha criticato le raccomandazioni della Commissione Baker per un diretto coinvolgimento diplomatico di Siria ed Iran per un'ipotesi di stabilizzazione della regione sostenendo che Siria ed Iran sono parte del problema in Iraq, non della soluzione) - di qui, dicevo, il parziale abbandono in sordina della tendenza all'unilateralismo in politica estera da parte di Bush in favore di un moderato multilateralismo che implica il coinvolgimento degli imperialismi europei per il controllo dell'intera area mediorientale: coinvolgimento che ha trovato un immediato riscontro, per quel che riguarda il Libano, da parte dell'Italia, intenzionata a coprire le difficoltà in politica interna con un rinnovato protagonismo in politica estera, e della Francia, desiderosa di partecipare alla spartizione di un bottino da cui è stata tenuta fuori per la posizione assunta all'epoca dell'aggressione Usa all'Iraq; mentre la stessa Germania si è subito proposta, per dare seguito alle raccomandazioni contenute nel rapporto della Commissione Baker, come intermediario tra Washington e Teheran, assicurando peraltro agli Stati Uniti appoggio e cooperazione per la ricostruzione dell'Iraq non appena la situazione della sicurezza lo consentirà: anche qui col malcelato intento di partecipare alla distribuzione dei profitti che assicurerà l'affare della ricostruzione.
Questo appena descritto è il prodotto delle contraddizioni interimperialistiche che già negli anni scorsi - a dispetto delle immaginifiche costruzioni intellettuali dei teorizzatori dell'Impero (penso alle fortune editoriali dei libri di Toni Negri) - erano vive e vitali, come ad esempio nelle guerre doganali e dei dazi sull'acciaio fra Stati Uniti ed Europa. Contraddizioni che si erano ulteriormente rivitalizzate attraverso l'aggregazione di paesi (Usa, Gran Bretagna, Italia e Spagna, da un lato; Germania, Francia, Russia e Cina, dall'altro) che hanno fatto dell'aggressione e della successiva occupazione dell'Iraq l'occasione per lo sviluppo dei propri rispettivi imperialismi. E proprio sulla spartizione del bottino di guerra si era verificata un'ulteriore recrudescenza dello scontro fra questi paesi, dal momento che gli Usa avevano espressamente escluso dal grosso affare degli appalti per la ricostruzione dell'Iraq le imprese di quegli stati che non li avevano militarmente appoggiati.
In ogni caso, la soluzione bellicista che il capitalismo sta in questo momento sperimentando non è scivolata senza reazioni sulle spalle dei lavoratori. Al contrario!
Gli attacchi militari e le occupazioni hanno determinato la discesa in campo di un ampio movimento contro la guerra: in tutto il mondo, grandi masse di lavoratori, disoccupati, donne, studenti, si sono mobilitate contro la guerra e per la difesa dei propri diritti, tanto che dall'autunno del 2002 alla primavera del 2003 si sono viste le più grandi manifestazioni contro la guerra dai tempi del Vietnam.
Quest'opzione bellicista, che il capitalismo sta praticando per instaurare un ordine mondiale favorevole al proprio ulteriore sviluppo, sta però dispiegandosi sullo sfondo di una congiuntura economica che non vede né crescita e progressiva espansione del sistema capitalistico, né crisi finanziaria catastrofica ed il suo collasso, ma una fase di complessiva stagnazione con episodi recessivi.
L'instabilità politica e sociale che questo quadro comporta ha determinato - e determinerà ancor di più - una netta ripresa delle lotte di massa, sia per l'aumento delle già forti tensioni sociali, sia per l'attuazione di politiche sempre più repressive da parte dei governi.
Certo, il livello della lotta di classe - o, meglio, il livello di coscienza che presiede la lotta di classe - non è paragonabile a quello di trenta anni fa; ma se già guardiamo a dieci anni fa notiamo che il livello è notevolmente superiore.
L'Europa, nonostante il recentissimo allargamento a 27 con l'ingresso di Bulgaria e Romania, non può dirsi un soggetto in grado di competere con l'imperialismo americano: l'Ue costituisce più che altro un'unione monetaria, una somma di alcuni imperialismi nazionali che trainano a rimorchio paesi dipendenti inglobati al solo scopo di allargare i mercati per la penetrazione delle imprese dei paesi più sviluppati e per fruire di manodopera più a buon mercato proveniente da quelli più deboli. È indubitabile che l'allargamento ad Est abbia regalato all'Unione quello che le mancava, cioè un serbatoio mobile e flessibile di manodopera a basso costo il cui utilizzo ha avuto un ruolo centrale nella ripresa economica europea con il sorpasso, per la prima volta da anni, degli Stati Uniti.
Tuttavia, nonostante il balzo in avanti dell'economia dell'Ue, siamo in presenza di un progetto rimasto a metà del guado. Quasi mezzo miliardo di cittadini (seconda solo a Cina ed India); più di un quinto del Pil mondiale e il 18% del commercio internazionale; ventitré lingue ufficiali: eppure, l'allargamento dissennato, perseguito con gli obiettivi appena detti, ha creato un'entità eterogenea e di fatto ingovernabile, malvista e contrastata dal 45% dei suoi cittadini, con una Carta costituzionale bloccata ed un ceto politico che non ha soluzioni immediate per stabilizzare questa situazione. In realtà, ben può dirsi che l'Europa, così come è stata costruita, è, né più né meno, una zona di libero scambio, non già un'entità politica.
Intanto, altri paesi dell'ex blocco comunista, comprese le nuove repubbliche balcaniche nate dall'esplosione della Jugoslavia, bussano alle porte dell'Ue ed il loro ingresso determinerà ulteriori tensioni e contraddizioni.
L'America Latina costituisce, in questo momento, il punto di sofferenza più acuto per l'imperialismo capitalistico. E non certo per la favoletta che la stampa borghese racconta, cioè quella di un continente praticamente espugnato dai "comunisti" grazie ad un progressivo spostamento a sinistra determinato dall'affermazione nel tempo di leader più o meno radicali (Lula in Brasile, Ortega in Nicaragua, Correa in Ecuador, Morales in Bolivia; e prima ancora Bachelet in Cile, Kirchner in Argentina). Quanto piuttosto perché più vivo è lo scontro sociale in atto, con le masse che da tempo hanno rialzato la testa scontrandosi con governi frontepopulisti insediati dal capitalismo stesso per sterilizzare il conflitto sociale e bloccare una possibile rivoluzione. D'altro canto, sono gli stessi capitalisti - che hanno in questo senso un fiuto eccezionale - ad escludere che al momento i vari governi di "sinistra" e di "centrosinistra" in America Latina possano costituire una minaccia per il sistema e per i loro profitti: nelle scorse settimane, ad esempio, dopo la rielezione di Chavez, una puntuale analisi de Il Sole 24 Ore rivelava l'assoluta tranquillità con cui il capitale guarda ai processi in atto nel continente sudamericano con l'insediamento di governi più o meno radicali.
Tuttavia - e qui le previsioni dei capitalisti sono meno precise - le potenzialità rivoluzionarie sono, in una prospettiva meno immediata, notevoli, dato che il livello di scontro sociale può tornare a salire prepotentemente allorquando le riforme che questi governi attueranno (persino quelli apparentemente più a sinistra, come quelli di Chavez e di Morales) andranno in direzione liberale.
L'esempio più evidente di quanto dicevo è costituito dal governo Lula, la cui elezione nel 2002 suscitò grandi speranze nelle classi disagiate, che videro in questo risultato un'occasione storica di rivincita sociale. Ma, non appena insediato, Lula iniziò da subito a pagare il debito contratto con i rappresentanti del capitalismo finanziario brasiliano ed internazionale per il notevolissimo contributo che essi diedero alla sua elezione, continuando le politiche liberiste del suo predecessore Cardoso, onorando gli impegni finanziari assunti con il Fmi e mettendo nei posti chiave delle istituzioni di governo i rappresentanti del grande capitale industriale e finanziario.
Dopo solo un anno di presidenza, gli investitori internazionali e le istituzioni finanziarie lodarono l'ortodossia economica di Lula, mentre la moneta brasiliana, il real, si apprezzava sul dollaro di oltre il 17%, il maggior guadagno nel 2003. La controriforma sulle pensioni determinò un'enorme ondata di proteste e venne approvata a colpi di repressione all'interno dello stesso Pt da cui vennero espulsi i deputati dissenzienti. La mancata attuazione delle promesse di riforma agraria fatte ai Sem Terra determinò l'innalzarsi della conflittualità sociale e la ripresa delle occupazioni delle terre del latifondo. Infine, la tangentopoli del 2005 fece crollare gli indici di popolarità di Lula, che infatti ha dovuto attendere il ballottaggio alle recenti elezioni per poter essere riconfermato nel mandato presidenziale. La sua rielezione, peraltro, viene vista con sempre maggior disincanto dai settori progressisti che l'hanno sempre sostenuto.
In Argentina, dopo le straordinarie giornate rivoluzionarie del dicembre 2001 e la cacciata del governo De La Rua, lo sviluppo del processo rivoluzionario si è allargato fino a creare l'embrione di un dualismo di poteri: oltre ai blocchi delle grandi arterie nazionali, agli scioperi generali ed alle grandi manifestazioni, le assemblee popolari e l'occupazione delle fabbriche hanno costituito un contropotere che si è opposto con la forza dei lavoratori, dei disoccupati, delle donne, dei giovani, al potere dello stato borghese; insomma, alla violenza repressiva del capitale si è contrapposta la forza delle masse. Tuttavia, nella fase successiva, proprio perché il processo rivoluzionario non ha avuto uno sbocco in senso operaio e socialista, l'azione di contenimento delle forze nazionaliste borghesi, dei partiti di centrosinistra e di sinistra e delle loro centrali sindacali - che in particolare sono riuscite ad evitare che la classe operaia assumesse un ruolo centrale nella protesta - ha incanalato la protesta di massa in alvei legalitari più controllabili; sicché, con le elezioni presidenziali che hanno portato Nestor Kirchner al potere, la situazione sociale è rifluita sino ad una sostanziale stabilizzazione.
Le elezioni presidenziali del 2005 in Bolivia hanno indubbiamente rappresentato l'epilogo di un lungo periodo di ascesa rivoluzionaria delle masse del paese andino: una dinamica - come storicamente è sempre accaduto - contraddittoria e nient'affatto lineare, ma certamente significativa rispetto all'attuale situazione politica e sociale del continente sudamericano.
Dopo la cacciata, nel 2003, del presidente Gonzalo Sánchez de Lozada, Evo Morales è salito al potere sulla base di un programma che, pur conservando toni verbali dal carattere radicale, è un progetto di "sviluppo nazionale e modernizzazione produttiva" che rappresenta un accomodamento nella cornice della democrazia boliviana.
Il risultato elettorale, con la canalizzazione dell'enorme pressione popolare nella massiccia espressione di voto per Morales, rappresenta senza dubbio un duro colpo per l'amministrazione Bush, per l'imperialismo e per l'oligarchia boliviana, che auspicavano (pur senza riporvi troppe speranze) la neutralizzazione del candidato indio. Ma, allo stesso tempo, pone le classi subalterne boliviane di fronte ad un dilemma di importanza capitale: il programma di Morales, al di là degli altisonanti principi, non ha futuro giacché non propone altro se non la convivenza con le grandi multinazionali degli idrocarburi; e tuttavia, non ha alcuna capacità di ridimensionare queste ultime, dal momento che la debole struttura dello stato andino non consente alcun tipo di controllo effettivo su di esse. Nondimeno, le grandi mobilitazioni operaie e popolari che sono confluite nel voto per il Mas richiedono una riorganizzazione sociale su nuove basi, di cui una è quella della nazionalizzazione dell'industria petrolifera senza indennizzo e sotto controllo operaio.
Si tratta, a ben vedere, dello "storico" dilemma: governo dei lavoratori o capitolazione di fronte all'imperialismo delle industrie del petrolio? E, come sempre, esso può essere sciolto in senso favorevole alle classi subalterne solo se vi sarà una direzione alternativa del movimento operaio e contadino di Bolivia.
Per il Venezuela il discorso è sostanzialmente analogo: Chavez, appena rieletto presidente, gode indubbiamente di un vasto consenso popolare costruito attraverso la realizzazione - sia pure confusa ed ambigua - di obiettivi di industrializzazione e redistribuzione, in favore delle classi meno abbienti e più emarginate, del differenziale della rendita derivante dalla produzione e dalla vendita del petrolio. Ed anche a livello internazionale, Chavez viene ormai universalmente identificato come il leader di una pretesa "rivoluzione bolivariana" in grado di fungere da argine all'imperialismo statunitense in America Latina.
Nella realtà il "chavismo" non è altro che un regime nazionalista borghese fondato su una buona dose di populismo e sul carisma del presidente, che gli ha consentito, agitando peraltro un antimperialismo verbale e praticando una crescente militarizzazione dell'intera amministrazione, di incunearsi nel vuoto di potere derivato dalla corruzione diffusa del sistema politico che ha ereditato. Ma, il "chavismo" rappresenta pure una variante progressista dell'"allendismo", inteso come pratica della transizione pacifica ed istituzionale al socialismo entro la cornice legale e costituzionale fissata dal capitalismo, con la propensione di classe a cedere nei confronti dell'imperialismo capitalista. Ne costituisce un chiaro esempio la complessiva politica economica e commerciale di Chavez per cui le grandi compagnie petrolifere americane vantano solidi e redditizi contratti commerciali con la Pdvsa (l'impresa statale del petrolio di Caracas).
La prospettiva dei lavoratori non è e non può essere quella di restare invischiati nell'ennesimo fallimento di un'esperienza nazionalista borghese, com'è quella "chavista", e nella ragnatela che essa ha tessuto e tesse con l'imperialismo. Essi dovranno - nel momento in cui oseranno chiedere di più scontrandosi con lo stesso Chavez - comprendere i limiti insuperabili di quella politica di compromesso, contrapponendovi la costruzione di un partito operaio rivoluzionario indipendente che costituisca l'avanguardia operaia rivoluzionaria su cui costruire l'unità socialista dell'America Latina
Riprendendo il discorso, non si può non vedere che, con le specificità proprie dei singoli paesi sudamericani, le contraddizioni che le riforme dei governi determineranno nelle masse e la disillusione che quelle riforme indurranno potranno essere la miccia in grado di incendiare l'intero continente, la scintilla capace di innescare nuovi e più deflagranti processi rivoluzionari. Tuttavia, vanno fatte alcune precisazioni.
All'interno di un processo di radicalizzazione sociale, sospinta dalla crisi, un settore di avanguardia della classe operaia può maturare un orientamento anticapitalista e di fatto rivoluzionario, può rivendicare la propria autonomia di classe, rivendicare la rottura con la borghesia, l'esproprio della borghesia, rivendicare il governo dei trabajadores, e al tempo stesso sperimentare nelle sue stesse forme organizzative l'embrione di un potere alternativo, come abbiamo visto per l'Argentina nel 2001 e, più recentemente, con la Comune di Oaxaca, in Messico. I poteri forti avvertono che questi esempi possono indurre una suggestione, possono essere fattori di contagio per altre realtà. Il fatto che, in un paese quale l'Argentina - che veniva presentato dai vertici del centrosinistra fino a poco tempo fa come il paese che aveva sperimentato brillantemente le ricette del neoliberismo in versione moderata - le masse si siano ribellate contro un governo regolarmente eletto e siano riuscite con la loro forza a cacciarlo è in qualche modo, dal punto di vista della percezione della borghesia - che, come dicevo prima, ha un fiuto e un intuito di classe sperimentato da secoli - un grande elemento di preoccupazione. Ed esattamente per questo, la borghesia lavora proprio per sterilizzare quelle potenzialità. Il punto è che non è sufficiente che quelle condizioni oggettive vi siano; è necessario e decisivo l'intervento concentrato di un fattore soggettivo che lavori a innescare la miccia e che contrasti le operazioni avverse della borghesia.
La storia ci insegna che nessun movimento di massa, per quanto grande nelle sue potenzialità, ha in sé la soluzione dei problemi che pone: il fattore decisivo è sempre l'incontro con un progetto cosciente, con una direzione politica capace di ricomporre quelle potenzialità sul terreno della rivoluzione. E questo è ovunque il compito difficile dei comunisti. Che, attraverso una battaglia di egemonia, debbono sviluppare, nel profondo dei movimenti e nel cuore delle loro contraddizioni, una coscienza anticapitalista e rivoluzionaria nella consapevolezza che, fuori di questa strada, l'alternativa è esattamente la dispersione e quindi la sconfitta di quei movimenti.
Ecco perché partiti rivoluzionari ed un'Internazionale rivoluzionaria sono gli strumenti necessari perché la classe operaia conquisti il potere. La ragione chiave per la quale le esplosioni sociali di questi ultimi anni sono state tutte arginate sta nella loro direzione: composta non già da partiti rivoluzionari, ma da partiti o burocrazie che hanno praticato la collaborazione di classe con la borghesia e, in alcuni casi, con l'imperialismo. Come abbiamo in altre occasioni detto, ciò che a tutte le latitudini del mondo in questi anni è mancato non sono state le lotte, ma una prospettiva di sviluppo rivoluzionario delle lotte ed in particolare una loro direzione rivoluzionaria.
Compito dei marxisti rivoluzionari è, appunto, costruire la direzione capace di intervenire nello sviluppo rivoluzionario della lotta di classe e portare la classe operaia al potere.
Ed è proprio per questo motivo - perché vogliamo costruirci come direzione rivoluzionaria delle lotte in Italia sapendo che non possiamo esimerci dal costruire, in Italia, la sezione della direzione internazionale delle lotte nel mondo - che, nell'affrontare il difficile compito di far nascere un partito rivoluzionario, ci siamo contemporaneamente impegnati perché esso nascesse come sezione di un'Internazionale rivoluzionaria dei lavoratori - la Quarta (perché, come diciamo nelle Tesi, il numero indica non già un feticcio, bensì un programma e, contemporaneamente, un lascito storico).
Oggi questa Internazionale non esiste. Esistono, però, varie tendenze internazionali che si richiamano al patrimonio politico - e lo investono nelle lotte cui partecipano - della Quarta Internazionale di Trotsky. Queste tendenze, senza proclamarsi (al contrario di altre) la Quarta rifondata, hanno la consapevolezza che ancora lunga è la strada per la rifondazione dell'Internazionale rivoluzionaria dei lavoratori e nel loro orizzonte politico hanno come obiettivo proprio la rifondazione della Quarta Internazionale.
La necessità di rifondare la Quarta, e non costruire una nuova Internazionale, sta nella constatazione che il processo di degenerazione che pure ha afflitto l'Internazionale di Trotsky dopo la sua morte è stato di gran lunga meno grave e profondo di quelli che hanno portato allo scioglimento della Prima, della Seconda e della Terza.
La rivoluzione proletaria è attuale perché attuali sono le sue premesse oggettive (la crisi della società) e soggettive (l'esistenza di una classe rivoluzionaria): e la connessione fra tali premesse è stata operata solo dal programma (e dall'Internazionale) trotskista. Solo il programma (e l'Internazionale) trotskista integra la lotta antiburocratica nella prospettiva della rivoluzione anticapitalista e proletaria mondiale: è l'unico programma che oggi - nella dichiarata continuità col bolscevismo dell'Ottobre, con le prime tre Internazionali e con la parola d'ordine principale del marxismo, la dittatura del proletariato - difende esplicitamente la prospettiva storica del socialismo.
Per dare una prospettiva di vittoria alla classe operaia occorre partire dal recupero di quel programma e di quell'Internazionale, soprattutto oggi che la crisi congiunta del capitalismo, della socialdemocrazia e dello stalinismo apre uno spazio storico sociale e politico obiettivamente più ampio per il rilancio di quel programma e del suo partito mondiale.
Ci siamo quindi posti, sulla base di queste premesse, l'obiettivo di operare per un raggruppamento sulla convergenza politico-programmatica, partendo ovviamente dalle forze che si richiamano al trotskismo conseguente. Dopo un lungo lavoro istruttorio, di cui costituiscono testimonianza le approfondite discussioni all'interno del Gruppo di Lavoro Internazionale e degli organismi dirigenti (che sono poi sfociate in decine e decine di circolari informative per gli iscritti e numerosi articoli sul nostro giornale) ci siamo confrontati con le due più grandi tendenze internazionali che si richiamano ai principi del trotskismo conseguente: la Lit-Ci (Lega internazionale dei lavoratori - Quarta Internazionale) e la Ft-Ci (Frazione trotskista - Quarta Internazionale), avendo anche un'interlocuzione con altre organizzazioni, tra cui la Frazione di Lutte Ouvrière, con le quali abbiamo allacciato rapporti tendenti a chiarire il quadro delle convergenze e delle divergenze esistenti.
Tali relazioni hanno preso le mosse da una serie di incontri preliminari con dirigenti di queste organizzazioni, scambio di documenti, di articoli che sono stati pubblicati sui rispettivi organi di stampa, discussione sui nostri testi congressuali con la presenza di dirigenti della Lit e della Ft al nostro Consiglio Nazionale. Tutto il percorso fatto ci ha convinti che sia la Lit che la Ft potessero essere parte - al di là di divergenze su aspetti relativi alla tattica, che a nostro avviso non intaccavano la comune elaborazione teorica e visione strategica - di un processo di aggregazione come percorso verso la rifondazione della Quarta Internazionale. In questo senso, ci siamo resi promotori di un incontro con delegazioni dell'una e dell'altra tendenza proponendo come terreno di discussione, tra gli altri, le nostre tesi congressuali. Tutto ciò, naturalmente, allo scopo di fornire, sia agli organismi dirigenti che all'intero nostro corpo militante, elementi di riflessione perché il Congresso potesse assumere una meditata decisione sulla nostra collocazione internazionale.
Crediamo di poter dire, senza enfasi, che quest'obiettivo - l'elaborazione collettiva di una scelta - è stato raggiunto: la discussione sui temi internazionali e sulla nostra collocazione nel panorama delle tendenze che si richiamano ai principi del marxismo rivoluzionario ha veramente attraversato tutto il tessuto della nostra organizzazione; il dibattito degli organismi dirigenti su questo punto è stato appassionato e partecipato: tutti i compagni presenti al Cn a ciò deputato sono intervenuti, apportando ulteriori elementi di riflessione su quelle che poi sono state le scelte che oggi, attraverso la risoluzione che vi è stata consegnata, vengono sottoposte alla discussione della platea congressuale.
I componenti del Cn, pur esprimendo valutazioni anche parzialmente diverse su taluni aspetti relativi all'ampiezza delle differenze fra Lit e Ft (in particolare, su questioni di politica estera, di politica sindacale e di alleanze elettorali), si sono sostanzialmente e quasi unanimemente espressi nel senso di un'adesione alla Lit, non solo valutando, nel complesso del dibattito, che le posizioni da quest'ultima sui temi rispetto ai quali sussistono delle divergenze fra le due tendenze siano più in consonanza con la nostra elaborazione politica, ma soprattutto avendo maturato la consapevolezza che questa scelta, anche per le modalità con cui si è prodotta (la discussione franca, fraterna e leale, il confronto senza secondi fini sulle rispettive posizioni), costituisce realmente un progresso sulla strada della rifondazione della Quarta poiché, appunto, si tratta di un processo di aggregazione basato sulla chiarezza programmatica.
Oggi viene proposto al Congresso - con questa risoluzione - di esprimersi sulla decisione di chiedere alla Lit il riconoscimento del nostro partito come sua sezione nazionale. Questo non significa certo chiudere la discussione con la Ft e con le altre organizzazioni. Al contrario: è nostro intendimento proseguire, come parte della Lit, il dibattito e l'interlocuzione con tutte quelle tendenze che condividono i principi del marxismo rivoluzionario al fine di favorire processi di aggregazione come parte del percorso della rifondazione della Quarta Internazionale, secondo il metodo che rivendichiamo nelle nostre Tesi.
Riteniamo che il tentativo di raggruppamento da noi posto in essere costituisca un passaggio centrale nel processo lungo e difficile della rifondazione della Quarta Internazionale ed indichi un metodo di costruzione del partito mondiale basato sul tentativo costante di raggruppare i rivoluzionari sulla base del programma, superando quel settarismo e quella presunzione di autosufficienza che sono purtroppo molto diffusi e che costituiscono una delle cause della frammentazione attuale dei trotskisti conseguenti.
In questo senso, riteniamo che la lunga e difficile strada della rifondazione dell'Internazionale rivoluzionaria dei lavoratori passi attraverso l'interlocuzione che, a partire dalla scelta di collocazione internazionale che facciamo in questo Congresso, vogliamo continuare ad avere con tutte quelle tendenze che condividono i principi del trotskismo conseguente, sfidandole ad abbandonare il settarismo ed il dogmatismo per discutere e confrontarsi su una base programmatica.
Dunque, una strada lunga e difficile, quella per la ricostruzione dell'Internazionale rivoluzionaria. Ricostruzione che costituisce una necessità storica per poter dare una risposta realistica alle esigenze della lotta di classe, poiché il partito internazionale dei lavoratori è da sempre elemento fondante del movimento comunista. E se su questo percorso incontreremo sicuramente degli scettici che irrideranno a questo nostro impegno, penso che potremo rispondere loro come fece Trotsky alla domanda di uno scettico sulla fondazione della Quarta Internazionale: «Ma che garanzie abbiamo che anche questa Internazionale non degeneri? È degenerata la Prima, poi la Seconda, quindi la Terza». Ebbene, Trotsky replicò: «Nessuna. Se degenererà, dovremo ricominciare. È la storia che lo decide, perché quello che ci muove non è un partito visto come fine, ma la volontà di cambiare questo mondo nell'unico senso possibile, in senso socialista, con la rivoluzione».
E credo che non vi sia modo più bello per concludere questa mia relazione ed aprire spazio alla discussione che citare il paragrafo finale dello scritto di Trotsky "Il programma di transizione". Il paragrafo si intitola: "Sotto la bandiera della Quarta Internazionale!".
«Gli scettici si chiedono: ma è giunto il momento di creare la Quarta Internazionale? È impossibile, dicono, creare un'Internazionale "artificialmente": può scaturire soltanto da grandi eventi, ecc. ecc. Tutte queste obiezioni dimostrano soltanto che gli scettici non servono per la creazione di una nuova Internazionale. In genere, non servono a niente.
La Quarta Internazionale è già sorta da grandi eventi: le più grandi sconfitte del proletariato nella storia. La causa di tali sconfitte consiste nella degenerazione e nel tradimento delle vecchie direzioni. La lotta di classe non ammette interruzioni. La Terza Internazionale, dopo la Seconda, è morta per quanto concerne la rivoluzione. Viva la Quarta Internazionale!
Ma gli scettici non vogliono tacere: "Ma è giunto il momento di proclamarne la creazione?". La Quarta Internazionale, rispondiamo, non ha bisogno di essere "proclamata"; esiste e lotta. È debole? Sì, le sue fila sono ancora esigue, perché è ancora giovane. Per adesso ci sono soprattutto dei quadri: ma questi quadri sono la sola garanzia dell'avvenire, al di fuori di questi quadri non c'è in tutto il mondo una sola corrente rivoluzionaria degna di questo nome. Se la nostra Internazionale è ancora debole numericamente, è forte per la sua dottrina, il suo programma, le sue tradizioni, l'incomparabile tempra dei suoi quadri. Se oggi c'è chi non lo vede ancora, che resti pure in disparte. Domani sarà più evidente.
La Quarta Internazionale è oggetto fin d'ora dell'odio giustificato degli stalinisti, dei socialdemocratici, dei borghesi liberali, dei fascisti. Non trova, né può trovare posto in nessun Fronte popolare. Si contrappone irriducibilmente a tutti i raggruppamenti politici legati alla borghesia. Il suo compito: rovesciare il dominio del capitale. Il suo obiettivo: il socialismo. Il suo metodo: la rivoluzione proletaria.
Senza democrazia interna non c'è educazione rivoluzionaria. Senza disciplina non c'è azione rivoluzionaria. Il regime interno della Quarta Internazionale si basa sul principio del centralismo democratico: piena libertà nella discussione, completa unità nell'azione.
La crisi attuale della civiltà umana è la crisi della direzione del proletariato. Gli operai avanzati, riuniti nella Quarta Internazionale, indicano alla propria classe la via d'uscita dalla crisi. Le offrono un programma basato sull'esperienza internazionale della lotta di emancipazione del proletariato e di tutti gli oppressi del mondo. Le offrono una bandiera incontaminata.
Operai e operaie di tutti i paesi, raccoglietevi sotto la bandiera della Quarta Internazionale. È la bandiera della vostra vittoria che si avvicina!».
Ed allora, che quest'esortazione costituisca per noi, che ci accingiamo all'arduo e pur necessario compito di rifondare la Quarta internazionale, non solo un augurio, ma l'indicazione del cammino da seguire e dell'obiettivo da raggiungere!