Respingiamo gli accordi di
luglio!
Costruiamo i Comitati per il No, prepariamo
lo sciopero generale
Antonino Marceca
Il pacchetto Damiano va respinto al mittente
Nella storia sindacale ci sono date e accordi che segnano
dei cambiamenti profondi, che aprono una nuova fase, non sempre e non
necessariamente progressiva.
Gli accordi del luglio ’92 e ’93
segnarono l’inizio del modello sindacale concertativo, l’accordo di luglio di
quest’anno sulle pensioni, il protocollo Damiano sul mercato del lavoro, gli
ultimi contratti firmati del pubblico impiego, dei postali, dei chimici, del
turismo aprono la strada al modello sindacale aziendalistico e corporativo.
Questo modello sindacale è stato sostenuto negli anni dalla Cisl, condiviso
perché più confacente ai suoi interessi dalla Confindustria. La presenza di un
governo di collaborazione di classe, di fronte popolare quale è il governo
Prodi, la realizzazione in questo quadro del Partito Democratico, espressione
degli interessi del grande capitale e con un radicamento reale nella burocrazia
sindacale, ha impresso un’accelerazione a questo processo.
Il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, ha indicato negli accordi di
luglio quegli “interventi e misure” del governo che costituiscono “l’attuazione
di un disegno organico”. Un “disegno organico” che si è esplicitato in un duro
attacco al salario, ai diritti e alle tutele dei lavoratori, a tutto vantaggio
dei poteri forti, degli industriali e dei banchieri.
Gli accordi di luglio sono un altro tassello, il più grosso, di quegli
“interventi e misure” che confermano le leggi Treu e Biagi sulla
precarietà, la cessione di attività di impresa, la riforma Dini e lo scalone
Maroni sulle pensioni. Queste norme sono state concentrate e peggiorate nel
nuovo pacchetto Damiano.
L’accordo sulle pensioni
Il 20 luglio è
stato firmato l’accordo sulle pensioni che, attraverso il sistema degli
scalini, riesce persino a peggiorare la legge Maroni portando l’età
pensionabile nel 2013 a
62 anni, mentre introduce un meccanismo automatico di taglio dei rendimenti
pensionistici.
Lo scalone di
Maroni viene diluito in tre scalini, nel periodo gennaio 2008-gennaio 2011,
andando anche oltre: dal 1 gennaio 2008 l’età minima di anzianità è di 58 anni,
dal 1 luglio 2009 di 59 anni e quota 95, dal 1 gennaio 2011 di 60 anni e quota
96, dal 1 gennaio 2013 di 62 anni, con 35 di contributi o di 61 con 36 e quota
97. Per chi ha maturato i quaranta anni di contributi ci saranno quattro
"finestre di uscita", lo stesso vale per le pensioni di vecchiaia,
che non decorrono più al compimento dell’età minima. Accanto all’aumento
dell’età pensionabile l’accordo prevede, in linea con la riforma Dini, un
meccanismo automatico, da attuare entro il 2008, che determinerà il valore dei
coefficienti di rendimento previdenziale sulla base di parametri esterni al
bilancio dell’Inps: le dinamiche delle grandezze macroeconomiche, l’andamento
demografico, l'aspettativa di vita, gli obiettivi di bilancio statale. Sulla
base di queste valutazioni, il governo ogni tre anni, autonomamente e senza
obbligo di contrattazione, stabilirà a quali coefficienti di calcolo la
pensione dovrà fare riferimento, con apposito decreto ministeriale.
Pertanto con
questo accordo si apre la prospettiva di una progressiva decrescita dei
rendimenti pensionistici, una scala mobile rovesciata. La burocrazia sindacale
ha evidentemente deciso di mandare alla deriva quello che resta della pensione
pubblica puntando a gestire assieme ai poteri forti i fondi pensione. Inoltre
l’accordo prevede: l’aumento dal 2011 dei contributi previdenziali a carico dei
lavoratori; di procedere all’unificazione degli Enti previdenziali che porterà
ad un travaso dei soldi dai fondi in attivo (quello dei lavoratori dipendenti)
a quelli in passivo (quelli dei dirigenti d’azienda, autonomi). L’accordo è
stato condito con una polvere di zucchero fatta di tutele per i lavori
usuranti, una promessa prevista dalla Dini e mai mantenuta, aumento miserevole
delle pensioni minime, promessa della copertura previdenziale per i periodi di
disoccupazione, in modo da addolcire l’amara medicina.
Il protocollo sul mercato del lavoro
Il 23 luglio, due giorni dopo aver acquisito l’accordo sulle pensioni,
il governo ha presentato alle parti sociali, sindacati e organizzazioni
padronali, il protocollo su previdenza, lavoro e competitività.
L’ideologia che regge l’impianto del protocollo è quella di una
politica economica e sociale ispirata ai principi di “crescita ed equità”, la
lettura dell’intero protocollo mostra quale è la prosa di questo liberismo
compassionevole.
Nel capitolo sulla competitività vengono previsti detassazione e sgravi
contributivi per la parte che forma il premio di risultato, aziendale e
territoriale, la cui misura massima passa dal 3 al 5% della retribuzione.
Inoltre viene abolita la contribuzione aggiuntiva sugli straordinari, prevista
dalla legge 549 del ’95.
Quest’accordo potenzia la contrattazione aziendale, dove avviene la definizione
del premio di risultato, e indebolisce il Contratto collettivo nazionale di
lavoro, l’unico che può garantire il potere d’acquisto dei salari e la
solidarietà tra tutti i lavoratori, specialmente in presenza di una struttura
economica costituita da una prevalenza di piccole e medie imprese, in cui la
contrattazione aziendale copre appena il 30% dei lavoratori. Inoltre il premio
di risultato è strettamente connesso al risultato aziendale, sempre che siano
veritieri i bilanci aziendali presentati in mancanza di un controllo operaio,
che dipende dal ciclo economico capitalistico. In più, gli straordinari
costando alle aziende di meno saranno utilizzati per allungare l’orario di
lavoro e la settimana lavorativa, e per questa via peggiorare le prospettive
occupazionali dei precari e dei disoccupati.
Il capitolo sul mercato del lavoro conferma quanto titolava il Sole 24 ore del 25 luglio: “la riforma
riabilita” le leggi Treu e Biagi. La precarietà diventa sempre più
l’asse centrale su cui poggia il mercato del lavoro, tanto che oggi oltre il
50% dei nuovi contratti sono precari, in modo da permettere alle aziende di
gestire liberamente la forza lavoro. I contratti
a termine vengono confermati, senza causali né tetti contrattuali, con
l’obbligo che trascorsi 36 mesi nella stessa azienda, anche non continuativi e
della durata di diversi anni, il successivo contratto a termine deve essere
stipulato alla presenza di un rappresentante sindacale presso la Direzione provinciale
del lavoro. Senza questo passaggio il nuovo contratto si considera a tempo
indeterminato. Le aziende possono pertanto farne un largo uso, mentre al
sindacato è assegnato un mero ruolo burocratico.
I contratti interinali, a differenza dei contratti a termine, non
presentano questo pietoso vincolo della certificazione sindacale; anche i
contratti "cocoprò" si consolidano, inoltre a carico di questi
lavoratori, nei prossimi tre anni, è previsto un aumento dei contributi (dal
23,5 al 26,5%). Lo staff leasing
infine, benché poco utilizzato dalle aziende, continua ad essere vigente e
all’occorrenza potrebbe costituire elemento di trattativa per agevolare il voto
della sinistra di governo all’intero pacchetto Damiano.
Nei capitoli ammortizzatori sociali prevale la parte compassionevole
del pacchetto, viene previsto un aumento dell’indennità di disoccupazione, la
copertura previdenziale con contribuzione figurativa, il sostegno al reddito
dei parasubordinati con attività intermittente. Il tutto con i soldi della
fiscalità generale, ossia degli stessi lavoratori.
Gli accordi di luglio congiunti
alla triennalizzazione e alle deroghe ai contratti nazionali costituiscono dunque
la leva per frammentare i lavoratori a livello aziendale e individuale di
fronte al padronato, il cui risultato, va da sé, sarà un aumento di
sfruttamento e oppressione del lavoro salariato.
I comitati per il No e per lo sciopero generale
Agli inizi di settembre le
segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil si sono riunite per discutere di come
organizzare la “consultazione con voto certificato” dei lavoratori e dei
pensionati. Il metodo proposto è quello del precedente e raffazzonato
pseudo-referendum del ’95 sulla riforma delle pensioni Dini, questo significa
che in ognuna delle migliaia di assemblee nei posti di lavoro sarà
rappresentata una sola posizione: quella di chi sostiene e difende gli accordi
di luglio. Questa modalità di svolgimento delle assemblee senza contraddittorio
limita fortemente la libertà di espressione e, unita alle “urne aperte” e
controllate dalle sole burocrazie, al ricorso pilotato ai voti passivi, rischia
di trasformare la consultazione in un plebiscito.
I direttivi unitari di Cgil, Cisl
e Uil riuniti il 12 settembre hanno approvato l’intesa del 23 luglio e dato
avvio alla consultazione, mentre per le votazioni, nei luoghi di lavoro e nelle
sedi sindacali, è stata stabilita la data dall’8 al 10 ottobre.
Il giorno prima il Comitato
Centrale della Fiom Cgil aveva respinto a larga maggioranza, 125 voti contro 31
e 3 astenuti, le intese di luglio. Un fatto di notevole importanza che rafforza
l’opposizione alla politica economica e sociale del governo, un evento
purtroppo frenato dal fatto che l’organizzazione sindacale di categoria,
dicendo di considerare la materia “di natura confederale”, si sottomette alla
“disciplina” della Cgil. Quindi la
Fiom non mette in discussione le modalità di svolgimento
della consultazione definite dagli esecutivi confederali e i dirigenti Fiom che
presiederanno le assemblee illustreranno (come ha detto Rinaldini) la posizione
delle segreterie confederali. Un atteggiamento che impoverisce la posizione
assunta dalla Fiom e indebolisce la battaglia contro i famigerati accordi di
luglio.
La Rete 28 aprile e Lavoro e
Società, la prima in minoranza, la seconda facente parte della maggioranza di
Epifani, hanno ribadito che daranno invece indicazione esplicita nelle
assemblee di voto contro gli accordi di luglio. La Rete 28 aprile ha inoltre
proposto la costituzione di Comitati per il No. I comitati possono
rappresentare un fatto di rilievo, un primo passo verso la costruzione di un
fronte unico di lotta: se costituiti dai lavoratori e dai militanti sindacali
contrari all’accordo, al di là della sigla di appartenenza, compresi i
militanti della RdB Cub e dei Cobas i cui dirigenti hanno invece dichiarato di
voler “boicottare” la consultazione.
Noi riteniamo che i Comitati per
il No non devono limitarsi alla denuncia degli accordi di luglio, ma
organizzare il controllo dei lavoratori sulla consultazione e far crescere nei
luoghi di lavoro la necessità di organizzare dopo il 10 ottobre, al di là
dell’esito della consultazione, la battaglia per contrastare l’attacco
governativo, costruendo lo sciopero generale contro il governo e il padronato.
Il passo successivo deve essere, noi pensiamo, quello di contrapporre al
modello sindacale aziendalistico e corporativo, un altro modello sindacale rivendicativo
e conflittuale, indipendente dal governo e dal padronato. Al “disegno organico
del governo” dobbiamo contrapporre un altro disegno organico: la mobilitazione
per una vertenza generale, sulla base di una piattaforma unificante, che
stringa attorno alla classe operaia, in un vasto fronte unitario di lotta, i
giovani e le masse popolari, nella prospettiva di un’alternativa di classe, per
un governo dei lavoratori.
(20 settembre 2007)