Partito di Alternativa Comunista

Ministro di grazia ma non di giustizia

Ex libris

a cura di Fabiana Stefanoni

 

Ministro di grazia ma non di giustizia

A sessant’anni dall’amnistia Togliatti

 

Nominato ministro di Grazia e giustizia nel governo Parri il 19 giugno 1945, Togliatti conservò l’incarico ministeriale anche nel primo governo De Gasperi. All’indomani delle elezioni del 2 giugno ’46, con le quali – accanto al referendum istituzionale che sancì la nascita della Repubblica – si elesse l’Assemblea costituente, De Gasperi sollecitò Togliatti a predisporre uno schema d’amnistia per i fascisti. Togliatti eseguì senza esitazioni: il 22 giugno 1946 fu emanato il “decreto presidenziale di amnistia e indulto per i reati politici e militari n. 4”, meglio noto come “amnistia Togliatti”. Più di vent’anni di oppressione fascista in Italia venivano cancellati con un colpo di spugna per mano del principale dirigente del Partito comunista italiano: un’ondata di scarcerazioni eccellenti portò a compimento quel processo di “normalizzazione” politica – per usare la nota espressione di De Gasperi – che, dopo la Resistenza, consegnava definitivamente ai grandi gruppi capitalistici italiani le redini del Paese.

 

Qualche dato interessante

 

Il libro di Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti (Mondadori, 2006), è un libro interessante, basato su ricerche d’archivio e sul tentativo di ricostruire con precisione e dati alla mano i numeri dell’amnistia. Per la prima volta, a detta dell’autore, si utilizza la documentazione d’archivio, dalla quale emerge che parti significative del decreto sono stese di pugno dallo stesso Togliatti, nonostante il tentativo della storiografia filo-Pci di presentare l’amnistia come un’imposizione da parte della Democrazia cristiana: “le ‘carte Togliatti’ attestano l’immediata consapevolezza da parte dello statista delle dimensioni massicce delle scarcerazioni, in contrasto con le versioni minimizzatrici da lui fornite per rassicurare l’opinione pubblica” (p. 4).

L’autore – che non prova particolari simpatie per il leader del Pci – non si fa scrupoli nell’elencare gli effetti del decreto, non trascurando i dati più scabrosi. Per citare qualcuno dei tanti casi esaminati nel libro, si ricorda che solo nei primi quattro giorni di applicazione (25-28 giugno), la Corte d’assise di Roma scarcerò, in applicazione del decreto d’amnistia, 89 fascisti accusati di collaborazionismo e atti rilevanti: “tra di essi comparivano elementi distintisi nell’apparato propagandistico della Rsi, una quantità di spioni e delatori e alcuni giudici dei tribunali speciali” (p. 49). Verso la fine di luglio (un mese dopo!) migliaia di fascisti beneficiarono dell’amnistia, compresi dirigenti noti per l’attività politico-militare svolta nel 1943-45 nelle brigate nere e nelle varie formazione armate della Repubblica Sociale Italiana. Se si considera poi che la quasi totalità dei giudici aveva giurato fedeltà al fascismo, transitando allegramente da Mussolini a Badoglio, da Salò alla repubblica, il gioco è fatto: alla fine della fiera l’amnistia fu applicata anzitutto ai maggiori responsabili del fascismo, compresi i partecipanti alla marcia su Roma (la Cassazione romana arrivò a definire “repubblica necessaria” il regime di Salò).

Se il libro è interessante dal punto di vista dei dati e dell’aneddotica – si ricorda, ad esempio, che tra i collaboratori di Togliatti durante l’incarico governativo figurava Gaetano Azzariti, presidente nientemeno che del Tribunale della razza dal 1938 al 1943, nelle vesti di “consulente” – si mostra invece carente dal punto di vista della cornice storica all’interno della quale i fatti vengono inseriti, fino a sfiorare il ridicolo quando si abbozza un giudizio critico sugli eventi.

 

Fronti popolari e stalinismo: le ragioni dell’amnistia

 

Lo schema interpretativo, sul quale Franzinelli articola la propria analisi dell’amnistia all’indomani della caduta del fascismo, manca degli elementi necessari a inquadrare le scelte di Togliatti nel contesto sociale e politico nel quale presero vita. Per questo, agli occhi dell’autore, l’amnistia appare quasi una scelta personale di Togliatti, motivata da una non meglio precisata volontà di compensare quelle che l’autore definisce “incongruenze dell’epurazione” (p. 260). In altre parole, si sarebbe trattato di un atto in buona fede di Togliatti ai fini della “pacificazione nazionale”, atto che ha poi trasceso le intenzioni originarie, diventando la causa di profonde insoddisfazioni e nuove “violenze di massa” (106).

Al di là dei giudizi di merito dell’autore – che, evidentemente, considera “atto di pacificazione” la stabilizzazione del sistema capitalistico e, quindi, dello sfruttamento di una classe su un’altra – la ricostruzione appare più giornalistica che storicamente fondata. Nessun cenno, ad esempio, viene fatto all’elemento determinante nella definizione delle scelte del leader del Pci: la politica dei fronti popolari, conseguenza della la vittoria della burocrazia stalinista in Unione sovietica e nell’Internazionale comunista. Nel VII Congresso (1935), l’Internazionale passò con un balzo apparentemente repentino dal “socialfascismo” (il cosiddetto terzo periodo) alla teorizzazione della necessità dell’unità di classe col nemico (i fronti popolari, appunto). L’alleanza di governo con la borghesia – esclusa di principio nel programma dei bolscevichi e della Terza Internazionale all’indomani dell’Ottobre – diventava il tributo che la classe operaia doveva pagare alla burocrazia stalinista: la rinuncia alla conquista del potere e alla prospettiva della rivoluzione internazionale era l’altra faccia della medaglia degli accordi di Stalin con le potenze imperialiste per la preservazione del proprio potere in Unione sovietica.

La celeberrima “svolta di Salerno” – con la quale Togliatti, nel marzo ’44 pose all’ordine del giorno la necessità della collaborazione di classe coi partiti della borghesia, non solo escludendo categoricamente qualsiasi traduzione della lotta di liberazione dal fascismo in potere della classe operaia, ma addirittura rimandando a data da destinarsi la messa in discussione della monarchia – si deve leggere in questo contesto. L’assunzione da parte di Togliatti di incarichi ministeriali, con la conseguente elargizione di attestati di fedeltà alla borghesia (nel caso specifico, il condono di vent’anni di violenze fasciste), trova le sue ragioni nell’adesione del Pci allo stalinismo: occorreva da un lato garantire gli accordi siglati da Stalin con l’imperialismo a Yalta e Potsdam ai fini della spartizione delle reciproche aree d’influenza; dall’altro lato, tentare di reiterare l’esperienza dei fronti popolari, sempre ai fini del consolidamento del potere sovietico.

 

Il vero scandalo

 

Discostandosi dall’ottica giornalistica del libro di Franzinelli, occorre individuare i veri fatti di fronte ai quali è il caso di gridare allo scandalo: non tanto il numero, alto o basso, di fascisti che sono rimasti impuniti all’indomani della Liberazione ma, piuttosto, il tradimento da parte della burocrazia stalinista del Pci delle ragioni della classe operaia. Di fronte a una situazione sociale potenzialmente rivoluzionaria, così come si venne configurando nel corso della Resistenza (con momenti particolarmente avanzati, dal punto di vista dello scontro di classe, in occasione degli scioperi del marzo ’43), il principale ruolo esercitato dalla direzione del Partito comunista italiano – appendice dell’Internazionale di Stalin – fu quello di contenere le spinte radicali, traghettare la classe operaia tra le braccia della borghesia, indurla a restituire le armi per riconsegnare il potere nelle mani degli stessi gruppi capitalistici che, fino a poco prima, si erano serviti del fascismo per portare avanti i propri interessi.

Il dopoguerra in Italia ha rappresentato l’ennesimo esempio di collaborazione di classe: mentre a livello internazionale la classe operaia veniva privata di una direzione rivoluzionaria, ministri comunisti, a braccetto con i partiti della borghesia, Democrazia cristiana in primis, garantivano al capitalismo una stabile sopravvivenza per gli anni a venire. Anche questo esempio storico ci insegna che la necessaria articolazione tattica del programma di un partito comunista, che va definita sulla base delle contingenze storiche, non può prescindere dal rispetto di alcuni principi imprescindibili: tra questi, l’indipendenza della classe operaia dai governi della borghesia. Non c’è prassi rivoluzionaria se si dimentica che l’essenza del programma comunista è “organizzazione della lotta di classe e direzione di questa lotta, il cui scopo finale è la conquista del potere politico da parte del proletariato e l’organizzazione della società socialista” (Lenin, 1899).

 

 

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