Arabia Saudita
Il re Abdullah bin Abdul-Aziz, il 23 febbraio, annuncia
un pacchetto di sussidi economici per i “sudditi”, superiore a 35 miliardi di
dollari. Quanto sta accadendo nello Yemen e in Bahrein è fonte di grandi
preoccupazioni per i palazzi del potere che temono, infatti, ripercussioni gravi
se il re del Bahrein, dovesse essere rovesciato. E’ temuta, inoltre, la
sollevazione della minoranza sciita che abita le regioni orientali dell'Arabia
Saudita, in cui si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi. Il giorno 4
marzo il regime ribadisce che sono proibite le manifestazioni di protesta.
Nonostante questo, nelle prime settimane di marzo, si diffondono alcune proteste
contro l'intervento dei militari sauditi in Bahrein. Le richieste sono di
riforme politiche, aumento dei posti di lavoro e migliori condizioni
economiche.
Yemen
La rivolta nello Yemen è stata duramente repressa dalle forze
di polizia: 52 i manifestanti uccisi. La protesta ha scelto l'università di
Sanaa, dove migliaia di manifestanti sono accampati dal 21 febbraio per chiedere
le immediate dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica da oltre 32
anni. L'esercito yemenita in questi giorni ha sparato in aria alcuni colpi
d’avvertimento per impedire ai sostenitori del regime d’Ali Abdullah Saleh di
caricare i manifestanti - si parla di decine di migliaia di persone in piazza -
che invocano le sue dimissioni. Sono, infatti, molti gli ufficiali che sono
passati dalla parte dei manifestanti. Anche schierando truppe a difesa
della folla radunata a Sanaa che protesta contro il regime. Di fatto Saleh è
sempre più solo e l’opposizione ha spiegato che aspetterà fino a venerdì 1
aprile per marciare sul palazzo presidenziale. Le dimissioni sono ormai
inevitabili dopo il rifiuto dei manifestanti anche all'ultimo tentativo dei
mediazione: offerta d’elezioni anticipate entro tre mesi, cambiamento dello
statuto e formazione di un governo d’unità nazionale con l'opposizione.
Oman
Il 26 febbraio la protesta arriva nell’Oman, lo Stato
governato dal 1970 dal sultano Qaboos bin Said al Said. I dimostranti chiedono
migliori salari, più lavoro, una distribuzione equa dei proventi del petrolio,
meno corruzione e le dimissioni del governo. Domenica 27 febbraio avviene lo
scontro con le forze di sicurezza. Nel corso dei disordini ci sono due morti e
numerosi feriti. Nel tentativo di calmare la protesta, il sultano, che detiene
un potere pressoché assoluto nel Paese, annuncia la creazione di 50 mila nuovi
posti di lavoro statali e un sussidio mensile per i disoccupati di 150 rial
(poco meno di 400 dollari) e sostituisce alcuni ministri. Nonostante questi
annunci nei giorni successivi gli scontri continuano.
Iraq
Venerdì 25 febbraio, nel corso del cosiddetto "Giorno della
Rabbia", migliaia di persone in molte città del Paese scendono in strada e
attaccano alcuni palazzi del potere. Le richieste sono anche qui: più lavoro,
migliori servizi come ad esempio L’erogazione dell’acqua e dell'elettricità,
pensioni più alte. Sono criticate, inoltre, la corruzione dei politici e delle
autorità in genere. Nello scontro ci sono circa quindici morti. Il 16 e 17 marzo
gruppi d’iracheni sciiti protestano contro l'intervento dei militari sauditi in
Bahrein.
Bahrein
Il Bahrein ospita la Quinta Flotta della Marina militare
americana. Le proteste hanno inizio a metà febbraio contro il re Hamad bin Isa
al-Khalifa. La dinastia regnante è sannita mentre circa il 70 per cento della
popolazione autoctona del Paese è sciita, sottorappresentata politicamente e da
sempre penalizzata in ogni ambito della società a vantaggio della minoranza
sunnita. Nella terza settimana di febbraio la brutale repressione delle proteste
di piazza causa sette morti. Una folla impressionante scende in piazza. Il 14
marzo arrivano in Bahrein circa mille militari sauditi e 500 poliziotti degli
Emirati per dare manforte al re. Il 15 il sovrano dichiara tre mesi di stato
d’emergenza. Alcuni leader dell'opposizione sono arrestati. Il 18 marzo è
demolito simbolicamente dall'esercito il monumento di Piazza della Perla, cuore
della protesta.
Siria
In queste
ore, serata del 29 marzo 2011, mentre scriviamo, il governo siriano si è dimesso
in blocco Formalmente la Siria è una repubblica retta dal gruppo
etnico-religioso degli alauiti, al cui vertice è dal 1970 la famiglia Asad,
titolare della Presidenza della Repubblica in forma ormai ereditaria. Di fatto
dal colpo di Stato del 1996 è in vigore la legge marziale, che sospende la
maggior parte delle garanzie costituzionali e aumenta i poteri del presidente,
legge marziale ufficialmente motivata dallo stato di guerra e dalla minaccia del
terrorismo. Le proteste sono iniziate una settimana fa nella città agricola di
Dara’a, vicino al confine con la Giordania, a causa dell’arresto d’alcuni
studenti delle scuole superiori che avevano disegnato sui muri graffiti
antigovernativi. Tali dimostrazioni sono rapidamente aumentate, con migliaia di
persone che hanno aderito alle proteste, ispirate dall’ondata di rivoluzioni che
hanno scosso il mondo arabo, chiedendo le libertà politiche e la fine dello
stato d’emergenza e della corruzione. Il governo ha risposto uccidendo decine di
dimostranti e ferendone molti altri. Raccapriccianti video della repressione,
diffusi via Internet nei giorni scorsi, hanno fatto aumentare lo sdegno e la
furia della popolazione siriana da un capo all’altro del Paese.
Nel
pomeriggio di giovedì 24 marzo l’ufficio del presidente Bashar al-Assad ha
annunciato concessioni senza precedenti alle richieste popolari: aumenti di
stipendio fino al 30% per i dipendenti statali e la liberazione di tutti gli
attivisti arrestati nelle scorse settimane, la promessa di nuovi posti di
lavoro, la libertà di stampa, il permesso di formare partiti d’opposizione e la
revoca delle leggi d’emergenza in vigore da 48 anni. Le promesse non hanno
placato le rivendicazioni dei manifestanti e alle promesse, com’era prevedibile,
sono seguiti i fatti con gli spari sulla folla che manifestava. A Tafas, poco
lontano da Dera´a, i dimostranti hanno dato fuoco al palazzo del Baath, il
partito al potere in Siria da mezzo secolo. Il bilancio degli scontri è pesante:
almeno un centinaio le vittime. In questo momento l’obiettivo dei manifestanti,
dopo le dimissioni del governo, è la cacciata del presidente Bashar
al-Assad.
A fuoco i
palazzi del potere
La lotta di classe è tornata e il mondo di
un pugno di miliardari che vivono sulle spalle di intere popolazioni e della
stragrande maggioranza dell’umanità comincia a sgretolarsi, esattamente come si
sgretolano, bruciando, i palazzi del partito Baath in Siria.
Le guerre
imperialiste, camuffate da aiuti umanitari e dichiarate sull’onda dello sdegno
popolare contro i tiranni, saranno riconosciute dalle popolazioni in rivolta per
quello che sono: il tentativo di soffocare, con i bombardamenti, ancora una
volta, ogni speranza di una reale alternativa di sistema.
E’ necessario che
le masse popolari e la classe operaia europea, sulla cui vita si sta abbattendo
la scure della crisi capitalistica, solidarizzi con le rivoluzioni del mondo
arabo e allo stesso tempo combatta contro i propri padroni e i propri governi,
avvoltoi nei confronti dei Paesi dove ci sono le materie prime da sfruttare,
avvoltoi nei confronti dei lavoratori nativi ed immigrati in Occidente. Il
nemico è, in Europa come in Africa, lo stesso: il sistema capitalistico che
offre solo miseria e distruzione dell’ambiente.
Affinché le rivoluzioni arabe
possano risultare vincenti e non soccombere alla compatibilità con il sistema
degli sfruttatori, è necessario che il proletariato di tutto il mondo si
organizzi in un partito internazionale che sappia coordinare e offrire una
prospettiva vincente a queste lotte. La Lega Internazionale dei Lavoratori -
Quarta Internazionale, di cui il Pdac è sezione italiana, lavora quotidianamente
in questa direzione.