La battaglia delle donne ieri e oggi
La donna “nuova” dello stalinismo
di Laura Sguazzabia
“È vero, in senso formale lo stalinismo è scaturito dal bolscevismo. Ancora oggi la burocrazia moscovita continua ad autodefinirsi partito bolscevico. Essa sta semplicemente usando la vecchia etichetta bolscevica per ingannar più facilmente le masse”: così Trotsky in Stalinismo e Bolscevismo del 1937. Il confronto tra bolscevismo e stalinismo in merito alla condizione della donna fornisce una prova di quanta verità sia contenuta in questa storica frase.
Le donne e la rivoluzione d’Ottobre del 1917
Dopo la presa del potere, lo Stato sovietico promulgò la legislazione più progressista della storia dell’umanità sulla famiglia e sul matrimonio. Venne legalizzato l’aborto gratuito anche su richiesta della sola donna, concesso il diritto al divorzio che poteva essere ottenuto immediatamente sulla base del mutuo accordo o tramite il tribunale in caso di disaccordo, riconosciuta la parità dei figli nati dentro o fuori il matrimonio, e soprattutto sancita l’assoluta uguaglianza tra donna e uomo davanti alla legge. Questi diritti erano essenziali per l'indipendenza delle donne dalle istituzioni patriarcali come la Chiesa ortodossa e le altre autorità religiose, e dal controllo di padri e mariti.
Venne inoltre assicurata l’assistenza alle partorienti e alle puerpere con misure quali aspettativa di 16 settimane prima e dopo il parto, esenzione da lavori troppo pesanti, divieto di trasferimento e licenziamento per le madri in attesa, proibizione del lavoro notturno per donne in gravidanza e puerpere, istituzione di appropriate cliniche della maternità, ambulatori, consultori, asili per l’infanzia.
I bolscevichi intervennero sulla socializzazione del lavoro domestico perché credevano che la liberazione della donna dipendesse dalla sua autonomia economica e finanziaria dagli uomini. Se una donna avesse dovuto fare affidamento esclusivamente su un uomo per mantenersi, la sua capacità di scegliere e di prendere delle decisioni sarebbe stata limitata dal controllo economico. La liberazione dal lavoro domestico avrebbe permesso alle donne di inserirsi nell’ambito lavorativo, di scegliere la propria istruzione, di partecipare attivamente alla vita sociale-culturale-politica: asili nido, giardini d’infanzia, mense collettive, lavanderie pubbliche per strappare le donne alla schiavitù domestica, insomma, a tutto il lavoro non retribuito che Marx definisce come "riproduzione della forza lavoro".
Per poter gestire questo lavoro il Partito bolscevico organizza nel 1919 lo Zhenotdel o Genotdel, il dipartimento del Comitato centrale per il lavoro tra le donne, che negli anni di attività riuscì a mobilitare circa un paio di milioni di lavoratrici e contadine.
Le donne e la svolta stalinista
Il piano di industrializzazione forzata varato negli anni ’30 da Stalin (che interessò soprattutto l’industria pesante) coinvolse poche donne, che rimasero disoccupate o relegate nell’industria leggera o nel lavoro domestico. Il Genotdel che avrebbe potuto giocare un ruolo in questo processo, venne abolito nel 1929 perché giudicato "inutile", dichiarando l’emancipazione femminile già realizzata.
Gran parte delle leggi che precedentemente miravano alla emancipazione della donna, venne abolita. Nel 1934 l’omosessualità e la prostituzione vennero dichiarati crimini puniti con otto o più anni di prigione. Nel 1936 venne proibito l’aborto, incrementato l’aiuto materiale alle partorienti, istituito un aiuto statale alle famiglie numerose, inasprita la condanna per il mancato pagamento degli alimenti, modificata la legislazione sul divorzio. Nella premessa dell’Ordinanza si affermava che “in nessun paese del mondo la donna gode di un’uguaglianza così piena dei diritti in tutti i campi della vita politica, sociale e familiare come nell’Urss” e che “ in nessun paese del mondo la donna, come cittadina e come madre, […] è tanto difesa dalla legge”; tuttavia poiché la crisi economica che ha colpito il Paese e l’intervento straniero non hanno permesso alle donne di esercitare tali diritti in modo responsabile, era necessario l’intervento legislativo per porre fine a quello che viene definito “un atteggiamento leggero verso la famiglia”.
L’aborto era proibito in generale o limitato a casi gravissimi (pericolo di vita per la madre o malattie ereditarie), con possibilità di essere praticato solo in strutture autorizzate: l’aborto clandestino era punibile con la reclusione ed una ammenda, oltre che al biasimo sociale.
Il divorzio doveva essere registrato alla presenza di entrambi i coniugi e dietro versamento di una tassa progressiva (50 rubli il primo, 150 il secondo, ecc.). Andava annotato sul documento di identità dei coniugi e ciò assumeva il valore di una nota di demerito visto l’impegno propagandistico dello Stato ad esaltare la maternità e l’unità familiare.
Al fine di favorire la maternità e di elevarne il tasso, vennero introdotti contributi economici per le famiglie numerose e venne esteso il periodo di riposo retribuito concesso prima e dopo il parto.
Nel 1944 un nuovo decreto sugli stessi temi segnò una svolta fondamentale nella politica familiare sovietica ed una cancellazione dell’impegno profuso dal governo bolscevico di scardinare la famiglia tradizionale e di liberare la donna dallo sfruttamento dovuto alla doppia responsabilità del lavoro sociale e domestico: nella premessa del decreto si dichiarava che “il rafforzamento della famiglia è sempre stato uno dei compiti più importanti dello Stato sovietico”.
Ora e sempre… rivoluzione!
Come in un gioco delle differenze, possiamo mettere a confronto queste due immagini di donna, distanziate nel tempo da una manciata di anni, per scoprire l’attualità (sic!) della più recente: sembra di vedere la donna di oggi, estromessa dal mercato del lavoro per far posto agli uomini, relegata tra le mura domestiche a sopperire alle mancanze dello Stato nella cura di figli ed anziani, economicamente dipendente da un compagno che spesso abusa di lei. Nessuna donna nuova propose lo stalinismo: in realtà la necessità di controllo sociale della burocrazia stalinista portò alla reiterazione del modello precedente la rivoluzione, quello basato sulla famiglia in cui si riproducono tra uomo e donna le dinamiche di oppressori ed oppressi, caratteristiche della società capitalista.
Come marxiste, nel dibattito plurisecolare che riguarda la condizione e l’emancipazione della donna, sosteniamo la necessità della lotta quotidiana contro l’oppressione della donna, consapevoli però che l’origine di questa oppressione è legata alla nascita della società divisa in classi e che solo la rivoluzione socialista, quella condotta da uomini e donne insieme, che metta fine a questa società, può aprire le porte alla liberazione della donna. Non è solo una questione teorica: è una lezione pratica che ci dà ragione, quella che proviene dall’Ottobre 1917. È sufficiente guardare alla rivoluzione russa per vedere l’intima relazione tra rivoluzione e liberazione della donna, confermata, in negativo, dalla controrivoluzione stalinista.