NI UNA MENOS
di Laura Sguazzabia
Nell’agosto prossimo ricorrono due anni dall’approvazione del tanto decantato “pacchetto sicurezza per il contrasto della violenza di genere”, in particolare del fenomeno femminicidio. Trasformato in legge nell’ottobre del 2013, avrebbe dovuto costituire, secondo i legislatori borghesi, un “giro di vite” garantendo alle donne maggiore sicurezza.
A dimostrazione che le leggi non bastano e che il problema va affrontato in altro modo, la recente pubblicazione di una indagine Istat dal titolo "La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia” mostra che gli stupri, i tentati stupri, i femminicidi non diminuiscono affatto, ed anzi la gravità della violenza aumenta: i fatti di cronaca quotidianamente continuano a riportare episodi di violenza maschile, fisica e/o sessuale, ai danni delle donne e il 2015 in Italia si caratterizza per un femminicidio ogni due giorni, rischiando di superare il record negativo registrato appunto due anni fa.
La violenza fisica è solo la punta dell’iceberg
Femminicidi e stupri costituiscono la parte più evidente del fenomeno chiamato “violenza di genere”, sono la parte più visibile e più appetibile per i media alla ricerca di scoop. Esiste infatti una realtà sommersa ed altrettanto feroce fatta di lavoro precario e sottopagato, di conciliazione di tempi di lavoro e di vita, di cura della famiglia, di lavoro domestico, nella quale le donne affrontano forme di violenza più sottili e meno percepibili.
La doppia oppressione che le donne quotidianamente subiscono nell’odierno sistema capitalista, lavorando fuori e dentro casa, si è drasticamente accentuata con la crisi economica: i tagli alla spesa sociale con la conseguente riduzione di servizi pubblici e gratuiti e la facilità di fuoriuscita dal mercato del lavoro, in particolare ora che serve far spazio agli uomini, hanno spinto le donne sempre più tra le mura domestiche a sopperire con il loro lavoro di cura alle mancanze dello Stato. Ammortizzatori sociali per necessità, private di indipendenza economica e tutela sociale, le donne sono inoltre penalizzate da politiche familistiche aggressive che le relegano ulteriormente nell’ambito del privato impedendone sempre più la partecipazione alla vita politica, sindacale, sociale e culturale.
L’educazione che le donne ricevono fin dalla nascita quando comportamenti, gusti e inclinazioni femminili sono modellati in base a ciò che è culturalmente e socialmente accettabile, fa sì che già da bambine, le donne siano educate per ricoprire i ruoli di mogli e madri, dedicate alle responsabilità del lavoro domestico e alla cura dei familiari.
L’impossibilità di una reale applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza nega alle donne il diritto di ricorrervi: il fenomeno incontrollato dell’obiezione di coscienza (con una media nazionale del 70% di obiettori) le costringe a lunghe peregrinazioni in cerca di un ospedale che le accolga, o le costringe ad abortire senza assistenza medica in un bagno di ospedale, oppure a ricorrere alla clandestinità, con tutti i rischi del caso.
La mercificazione del corpo delle donne che le relega nel ruolo di oggetto sessuale, le rende in questa società degenerata moralmente una merce da vendere e da comprare.
Tutto questo non rientra nelle statistiche sulla sicurezza delle donne che viene misurata non tanto sul loro grado di indipendenza, emancipazione e autonomia o sul loro grado di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica, ma solo sulla gravità della violenza fisica subita.
Sconfiggere il maschilismo per sconfiggere il capitalismo
L’aumento della violenza contro le donne è un grave sintomo dell’espansione dell’ideologia maschilista e patriarcale, della convinzione che gli uomini sono più forti e più capaci rispetto alle donne e che, quindi, devono comandare il mondo. Quest’ideologia nefasta afferma che le donne sono nate per essere casalinghe, avere dei figli e prendersi cura della famiglia, e non sono adatte per la produzione sociale e politica; tratta le donne come "esseri inferiori", destinate ad essere schiave della casa, a guadagnare meno degli uomini e ad occupare i peggiori posti di lavoro, a farsi carico delle faccende domestiche e ad essere proprietà privata dei mariti e dei compagni, diventando la scusa perfetta per giustificare tutti i tipi di violenza domestica che porta all'omicidio delle donne da parte dei loro compagni.
Il maschilismo non è, come si vuole far credere, un fatto di condotta individuale, ma un'ideologia utilizzata dal capitalismo per mantenere il controllo sociale. E’ importante infatti che all’interno della famiglia, secondo la visione borghese, si riproducano le stesse tensioni ed oppressioni che i proletari nel loro insieme sperimentano nello scontro di classe, senza tuttavia averne consapevolezza.
Per questo motivo riteniamo che le organizzazioni della classe lavoratrice debbano prendere consapevolezza di questo meccanismo e sottrarsene poiché nell’assecondarlo si pongono dalla parte dei loro stessi oppressori.
Il capitalismo utilizza la differenziazione dei ruoli imposti dalla società patriarcale, per incrementare lo sfruttamento e per rompere l’unità tra i lavoratori. Gli uomini lavoratori che praticano atti di maschilismo e difendono questa ideologia finiscono, più o meno consapevolmente, per difendere i padroni. Quando un lavoratore smette di praticare atti maschilisti ed assume le rivendicazioni contro l’oppressione, indebolisce l’obiettivo dei padroni di dividere per sfruttare. Ad ogni diritto che viene strappato alle donne, viene commesso un sopruso in più ai danni dei diritti di tutti i lavoratori. Per questo le rivendicazioni volte a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle donne devono essere riprese da tutta la classe lavoratrice. È attraverso l'unità della classe lavoratrice sulla base di una comune posizione di classe indipendente da genere, razza od orientamento sessuale, e con la lotta per le mete comuni del socialismo che si abbatte il pregiudizio. La lotta per il socialismo si basa sul potere dei lavoratori – non maschi o femmine, ma tutti i lavoratori. In questa lotta ogni lavoratore ha un ruolo fondamentale e una vittoria dei lavoratori di sesso maschile sarà impossibile senza una eguale lotta da parte delle lavoratrici. Il sistema economico socialista rende impossibili le basi materiali per l'oppressione di genere, e la lotta per instaurarlo abbatterà i pregiudizi sessisti dimostrando nella prassi l'uguaglianza tra uomini e donne.
Sull'ennesimo atto di violenza maschilista contro una giovane donna
Dichiarazione della Commissione lavoro donne del PdAC
Qualche
sera fa a Roma, in un quartiere definito “bene” dalla stampa borghese, una ragazzina di 16 anni è stata stuprata da un militare che per adescarla si è finto poliziotto.
La
vicenda ha già suscitato un
vespaio di polemiche sulla sicurezza nella Capitale, sull’aumento della violenza sulle donne, sulla mancanza di norme
adeguate che le tutelino e (come è
ovvio in questi casi da parte dei benpensanti) sulle presunte “responsabilità
della vittima”. Polemiche a nostro
parere fuorvianti, necessarie a nascondere un dato significativo in questa
ennesima tragica vicenda di violenza sulle donne, un dato su cui nessun media
si è soffermato o che si è
cercato di occultare definendo prudentemente lo stupratore un “dipendente del Ministero della Difesa”.
In
realtà l’aggressore
della sedicenne è un sottufficiale
della Marina italiana che a Roma stava attendendo il momento di partire in
missione. Un fatto non secondario, perché
il ruolo sociale di questo aggressore ha lasciato tutti spiazzati. Nonostante l’iniziale “caccia
all’immigrato”,
l’aggressore è
un italiano, un “bravo patriota”, di quelli che si mettono la divisa e partono in nome del
proprio Paese; di quelli che sotto la maschera della “missione di pace”,
partono per difendere gli interessi del capitalismo italiano in qualche remota
parte del mondo. In libera uscita prima della missione, l’altra sera ha brutalmente aggredito una ragazzina,
ingannandola e minacciandola, riducendola con la forza a sottostare alla sua
volontà. Una volta fermato,
si è giustificato addirittura dichiarando che il rapporto era
consenziente. Quest’uomo (se così possiamo dire) che non è
in grado di rispettare le donne del Paese
per cui veste una divisa, quale trattamento avrebbe riservato alle donne di
un Paese terzo nel quale avrebbe svolto un ruolo di salvatore, dunque degno
della “riconoscenza” popolare? Non vogliamo immaginarlo: sono vive nella memoria
di tutti le violenze delle truppe italiane sulle donne in Somalia, in
Mozambico, in Libano; sono note a tutti le violenze delle truppe internazionali
su donne e bambini nei territori in cui dicono di portare la pace.
Le
donne del Pdac esprimono a Chiara tutta la loro solidarietà per l’orribile
vicenda che le è accaduta e per la
quale non ha alcuna responsabilità.
Insieme a lei, ricordiamo tutte le donne nel mondo vittime di militari che
sotto la bandiera del capitalismo internazionale, affermano la loro impunità con atti di violenza. La nostra battaglia, insieme a tutti
i compagni del partito, è
contro ogni forma di violenza e di sfruttamento, nella consapevolezza che solo
eliminando l’oppressione
capitalista di una classe su un’altra
e con la creazione di un altro sistema, il socialismo, sarà possibile una reale parità
e una pacifica convivenza di uomini e donne.