Dal "Pacchetto Treu" alla "Riforma Biagi": nuove generazioni e sfruttamento del lavoro
di Alberto Faccini
Se "l'operaio lavora sotto il controllo del capitalista e a questo appartiene il suo tempo" e "il prodotto è proprietà del capitalista, non del produttore diretto, di chi lavora", potremmo definire le nuove forme di lavoro come forme nuove per una sostanza antica.
Le riforme del lavoro del 1997 ("Pacchetto Treu") e del 2003 ("Riforma Biagi") sono in continuità l'una con l'altra; potremmo dire che se il centrosinistra ha dischiuso una porta, il centrodestra l'ha spalancata. Prima del 1997 in Italia vigeva una sorta di "principio etico": non poteva aversi l'interposizione di manodopera (legge 1369/'60), ovvero non vi poteva essere un imprenditore "utilizzatore" della manodopera diverso da quello che effettivamente stipulava il contratto col lavoratore, per evitare che il secondo ottenesse profitto dalla vendita (o dall'affitto) del lavoro altrui.
Nel 1997 s'introdussero delle deroghe, individuando i casi in cui era ammissibile l'utilizzo dell'intermediazione di manodopera, rendendo così possibile ciò che sino allora possibile non era; con la riforma "Biagi" il divieto di intermediazione di manodopera è abrogato definitivamente. Col nuovo rapporto a tre (lavoratore, somministratore, utilizzatore) la prestazione lavorativa è erogata a favore dell'utilizzatore che assume anche il potere gerarchico ed organizzativo nei confronti del lavoratore somministrato, circostanza prima assolutamente vietata. Il lavoratore, peraltro, resta vincolato al somministratore, titolare del potere disciplinare.
Le nuove figure di lavoratore precario
Ma la riforma del 2003 ha anche moltiplicato le forme di lavoro con "flessibilità in entrata": il lavoro intermittente o a chiamata (dove il lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa quando ne ha bisogno e, nei momenti in cui quest'ultimo non ne ha necessità, è tenuto a corrispondere solo un'indennità di disponibilità); il lavoro ripartito (per cui due lavoratori assumono in solido l'obbligo di prestare l'attività lavorativa). Ma non solo: si facilita il ricorso al part-time; si amplia oltre ogni misura il ricorso all'apprendistato, quel contratto che dovrebbe comportare a carico del datore di lavoro l'obbligo di formare il lavoratore e che, d'altro lato, riduce sensibilmente il costo del lavoro (agevolazioni contributive, retribuzione del lavoratore inferiore a quella che gli spetterebbe considerando le sue mansioni); s'introduce il contratto di inserimento per categorie "svantaggiate" di lavoratori, ovviamente con incentivi economici per le imprese che utilizzano tale strumento e con riduzione del salario; si sostituisce la figura del collaboratore coordinato e continuativo con quella del lavoratore a progetto, liberalizzando l'utilizzo di questa figura, estranea all'azienda e, di conseguenza, meno costosa per l'imprenditore.
Infine la riforma "Biagi" interviene sull'art. 2112 C.C. La norma nasce per tutelare i lavoratori nel caso di cessione dell'azienda da cui dipendono, garantendo loro il passaggio, a condizioni invariate, alle dipendenze dell'acquirente. Fino al 2003 si poteva dimostrare giuridicamente che il ramo d'azienda ceduto non fosse indipendente dall'azienda nel suo insieme. Con la riforma non esiste più il requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda preesistente al trasferimento e, quindi, alla cessione (chiamata esternalizzazione o outsourcing) non ci si può opporre.
Lotta alla precarietà e alla collaborazione di classe
Chiara è la natura di classe di queste riforme: in un contesto di crisi del capitalismo italiano si punta ad un sostegno alle imprese mediante la riduzione del costo del lavoro (agevolazioni fiscali e retribuzioni inferiori al dovuto realizzano proprio questo obiettivo) e la moltiplicazione delle forme di assunzione serve a ridurre la coscienza di classe dei lavoratori. Si aggrediscono i diritti sindacali che, seppur formalmente riconosciuti, non potranno essere mai esercitati da parte di chi è facilmente ricattabile non avendo alcuna certezza di stabilità occupazionale.
La lotta alla precarietà è oggi centrale. Non basta invocare immaginari santi protettori del precario, ma bisogna puntare all'abrogazione delle leggi di precarizzazione ("Biagi" o "Treu" che siano), delle delibere dei comuni che applicano tali leggi, degli atti di attuazione della legge "Biagi" ad opera delle Regioni (possiamo ricordare, ad esempio, che la Regione Abruzzo, guidata da una giunta di centrosinistra con la presenza in maggioranza del Prc, ha dato attuazione alle norme della Legge Biagi sull'apprendistato rendendo così operativa quella disciplina che sino ad allora era rimasta inoperante delibera di Giunta n. 583 del 21/06/05).
La lotta alla precarietà può passare anche attraverso una campagna per il salario sociale; salario che non può essere inteso come corrispettivo dell'accettazione della precarietà (il binomio regolazione della precarietà ed estensione degli ammortizzatori sociali, prospettato dal centrosinistra, significa proprio questo), così come non può essere un sussidio di povertà come si è fatto in Campania (con l'erogazione di 300 euro mensili alle famiglie che, annualmente, hanno un reddito inferiore ai 5000 euro). Il salario sociale è mezzo per ridurre la ricattabilità del precario che, solo se in possesso di mezzi di sussistenza, potrà liberamente scioperare, organizzarsi in sindacati.La battaglia per il conseguimento del salario sociale è utile strumento per la crescita di una coscienza di classe tra soggetti che contrattualmente sono diversi, ma che hanno in comune una condizione di vita caratterizzata dall'incertezza, dalla precarietà e dallo sfruttamento.
La lotta alla precarietà si intreccia con la questione del governo; è possibile pensare di superare la precarietà a fianco di chi, ieri, è stato artefice del "Pacchetto Treu" e si è opposto all'unico tentativo degli ultimi anni, troppo presto dimenticato, di espansione dei diritti dei lavoratori, ovvero il referendum sull'art. 18? a fianco di chi oggi dichiara che "se andremo al governo vareremo modifiche parziali alla legge sul lavoro (:) la flessibilità serve per aiutare i ragazzi ad entrare nel mercato del lavoro, ma siamo contrari al precariato infinito"(R. Prodi, la Repubblica, 12/03/2005)? Com'è possibile pensare di poter proporre all'Unione uno "stipendio doppio a chi lavora da precario"(come fa M. Zipponi su Liberazione del 21/08/2005)? Una simile idea è palesemente in contrasto con il fine stesso dell'introduzione del precariato, ovverosia la riduzione di costi a carico delle imprese. Esiste una distanza incolmabile tra le rivendicazioni dei movimenti contro la precarietà e il centro liberale dell'Unione, distanza dovuta alla rappresentanza obiettiva di ragioni di classe contrapposte: da un lato gli interessi degli imprenditori, dall'altro quelli dei lavoratori.
Lotta alla precarietà significa, quindi, lotta alla prospettiva di collaborazione di classe e lotta alla concertazione, metodo con cui le classi dominanti puntano a corresponsabilizzare le rappresentanze delle classi subalterne nell'attuazione del proprio programma, metodo utile a rimuovere l'opposizione di classe al programma antipopolare.