23 e 25 novembre:
in piazza contro oppressione e sfruttamento
di Rosetta Ferra e Laura Sguazzabia
In questi giorni, mentre scriviamo in previsione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne (e della manifestazione di sabato 23 novembre), si sta svolgendo in Italia il processo per l’omicidio di Giulia Cecchettin, fatto che lo scorso anno ha creato una diversa percezione della violenza di genere: la violenza che capita solo agli altri e quella che può capitare a chiunque. Una sensazione che non si è attenuata, ma che anzi i fatti di cronaca continuano a confermare.
Una violenza che non diminuisce
Secondo i dati del ministero dell’interno aggiornati al 3 novembre, da inizio anno sono 96 gli omicidi di donne, di cui 82 in ambito familiare e affettivo, 51 uccise da partner o ex. Emerge una maggior presa di coscienza da parte delle donne che si rivolgono al 1522, il numero verde per le emergenze: nel primo trimestre del 2024 le chiamate valide (ovvero pertinenti all'attività del numero verde) sono state oltre 17.800, in crescita dell’82,5% rispetto allo stesso periodo del 2023; nel secondo trimestre si sono attestate a circa 15.000 (+57%) e nel terzo trimestre i dati sono in linea ai due trimestri precedenti. Nonostante questo maggior numero di segnalazioni, la cronaca parla chiaro: i femminicidi si ripetono, uno ogni tre giorni.
Nei nove mesi del 2024 presi in esame dal report risultano in aumento anche i reati sul web contro la persona, come sextortion (l’estorsione sessuale, circa 1200 casi), revenge porn (200) - entrambi in crescita del 9% rispetto allo stesso periodo del 2023 - e stalking (intorno a 140 casi).
Rimangono purtroppo nella media dello scorso anno le vittime di violenza sessuale, circa 16 al giorno, e cresce il numero dei maltrattamenti contro famigliari e conviventi.
Oltre alle cifre ufficiali, non dobbiamo dimenticare la percentuale di donne che non denuncia, per cui il sommerso, per quanto stia emergendo, è ancora consistente.
I dati italiani purtroppo sono in perfetta sintonia con quelli mondiali: se allarghiamo un po’ lo sguardo la situazione non solo non migliora, ma in alcuni Paesi è addirittura peggiorata.
Dietro le cifre di cui sono ricchi gli interventi di questi giorni sui media e sui social, ci sono nomi, volti e vite di donne per le quali tanto si parla e poco si fa. O meglio, si fa ma nella direzione opposta.
La vita di noi donne a livello mondiale è ostaggio di governi che limitano i diritti impedendo una reale uguaglianza, riducono la nostra indipendenza economica (necessaria per uscire dalla spirale di violenza), decidono sui nostri corpi e sulle nostre menti dichiarando di farlo nel «nostro» interesse. E dopo aver deciso e averci messo in una posizione di inferiorità psicologica e fisica, emanano qualche legge per darci la sensazione che ci stanno proteggendo.
Se la strada istituzionale è poco proficua nel dare risposte a quella che ormai da anni viene definita persino dall’Onu una «pandemia», altrettanto si può dire delle soluzioni fornite contro la violenza sulle donne dalle direzioni borghesi e riformiste del movimento femminista nazionale e internazionale: critica al patriarcato, educazione dei singoli, revisione del linguaggio, «rottura del tetto di cristallo» sono risposte estemporanee che non corrispondono a una lucida analisi del reale e che non riescono a incanalare verso un’azione definitiva quella moltitudine di energie che ha invaso le piazze e le strade, locali e mondiali, negli ultimi anni.
La lotta di classe è l’unica soluzione
La violenza contro le donne è un problema molto ramificato e radicato nella società capitalista. Questa violenza sia essa fisica che verbale non è solo un problema del singolo ma origina da un sistema che trasmette e tramanda le disuguaglianze e l'oppressione. La società capitalista fondata sulla divisione in classi, si sostiene e si alimenta con le differenze di genere, di religione e di etnia per mantenere inalterato il controllo sugli sfruttati. In questo contesto, la violenza sulle donne deve essere obbligatoriamente vista come uno strumento di controllo e oppressione, fondamentale per il sistema capitalista per mantenere le donne in uno status di subordinazione. Il sistema capitalista, in effetti, perpetua le disuguaglianze di genere per mantenere uno stato di oppressione e sfruttamento: la precarietà e instabilità lavorativa, il divario salariale tra uomo e donna o tra etnie, la scarsa presenza delle donne nei luoghi decisionali sono esempi tangibili di come il sistema mantenga inalterato lo status di disuguaglianza.
Dal punto di vista marxista, fronteggiare questa violenza richiede un cambiamento strutturale. Non basta solo sensibilizzare e/o affidarsi alle leggi esistenti, ma è di fondamentale importanza abbattere il germe della violenza di genere, la disuguaglianza economica (dovuta anche ma non solo dal gap salariale), la mancanza di autonomia delle donne (che molto spesso per far fronte al lavoro di cura sono costrette a richiedere part time per l’assenza di servizi garantiti dallo Stato come asili, strutture per anziani e disabili etc.).
Abbracciando le teorie di Marx e Lenin, la lotta contro la violenza di genere deve essere intrecciata con la lotta di classe. Infatti, solo attraverso un radicale rinnovamento socialista della società, che elimini le basi capitalistiche/economiche dello sfruttamento, si può sperare di affrontare in modo proficuo la violenza contro e sulle donne. Le misure di riforma infatti non sono sufficienti; è fondamentale e necessaria una rivoluzione che rovesci il sistema capitalista per costruire una società realmente egualitaria.
Le donne lavoratrici devono riconoscere il loro ruolo fondamentale nella lotta di classe ed unirsi ai lavoratori per combattere l'oppressione capitalista. Rosa Luxemburg e Clara Zetkin sono esempi di donne che hanno lottato per la causa socialista e per la liberazione delle donne. Occorre poi ricordare l’esempio fornito dalla rivoluzione dell’Ottobre 1917, che introdusse il diritto di voto, l’accesso all’istruzione ed al diritto di aborto (in stridente contrasto con tante «democrazie» odierne, che negano, attraverso le loro politiche liberiste, questi diritti).
Il Partito di Alternativa comunista sostiene fermamente che una vera emancipazione delle donne può conquistarsi solo attraverso il socialismo, poiché solo l’emancipazione dallo sfruttamento, impossibile nel capitalismo, porterà all’emancipazione dall’oppressione; attraverso un sistema in cui le risorse siano controllate collettivamente e la produzione sia diretta ad assolvere ai bisogni sociali, piuttosto che al profitto. In una società socialista, le donne avrebbero pari accesso alle risorse e opportunità, rendendo impossibile il perpetuarsi ed evolversi di logiche di potere squilibrate che accrescano la violenza di genere.
La solidarietà di classe è per noi un principio chiave. Le donne, unite nella lotta con i lavoratori e i movimenti sociali, possono sfidare il sistema che perpetua la loro oppressione. La costruzione di un partito che lotti contro il capitalismo e il patriarcato è per questo l’unica strada percorribile per creare una società libera dalla violenza di genere. In sintesi, l'emancipazione delle donne e la lotta contro la violenza di genere sono parte integrante della più ampia battaglia per il cambiamento rivoluzionario della società.
Riprendiamoci i nostri diritti!
Il mondo occidentale si è scandalizzato in queste settimane per le decisioni assunte dal «barbaro» governo talebano di impedire alle donne di far sentire la propria voce in pubblico. Ma il trattamento che i governi stanno riservando alle donne nel resto del mondo non è di gran lunga diverso. Ci stanno impedendo più o meno scopertamente di esercitare i nostri diritti riproduttivi, ci hanno private dell’indipendenza economica e ci hanno truffate per quanto riguarda l’uguaglianza formale. E questo nei fatti ci ha rese «mute».
Facciamo sentire la nostra voce per rivendicare la dignità delle nostre vite. Per riprenderci i nostri diritti scendiamo in piazza a Roma sabato 23 novembre (giornata nella quale sono previste manifestazioni in tante capitali del mondo) e partecipiamo alle iniziative previste nelle varie città per il 25 novembre. Seguiamo l’esempio delle donne ucraine e delle donne palestinesi che in questi mesi ci hanno mostrato cosa significa lottare per i propri diritti. Uniamo le lotte delle donne a quelle del movimento dei lavoratori che in Italia sarà in sciopero generale il 29 novembre e a quelle del movimento palestinese che sarà in piazza a Roma il 30 novembre. Chiediamo ai nostri compagni di classe di sostenere le nostre battaglie perché la lotta contro l’oppressione è anche la lotta contro lo sfruttamento di cui anche loro sono vittime.