America latina: il capitalismo è seduto su una polveriera
di Salvatore de Lorenzo
Da alcuni anni l’America latina attraversa una fase rivoluzionaria, caratterizzata da una ripresa della lotta di classe in almeno una decina di Paesi e da una profonda instabilità politica nei restanti. Solo negli ultimi otto mesi abbiamo descritto, sul sito della Lit-Quarta Internazionale, i fenomeni insurrezionali occorsi in Perù, Haiti, Paraguay e Colombia e le mobilitazioni oceaniche che hanno riempito le piazze di diverse centinaia di città brasiliane. In quest’ultimo mese anche a Cuba il proletariato è sceso in piazza contro la dittatura capitalista capeggiata dal regime castrista. Nel frattempo in Cile sono in corso i lavori dell’assemblea costituente, sottoprodotto della rivoluzione dell’ottobre del 2019. In Brasile anche in questi giorni sono in corso mobilitazioni di massa per chiedere la cacciata di Bolsonaro. In questo articolo cercheremo di descrivere le cause strutturali e contingenti che hanno determinato la ripresa della lotta di classe in America latina e di evidenziare alcune caratteristiche di questi processi e i loro attuali limiti. In ogni caso, nel quadro della situazione mondiale, caratterizzata da molti altri focolai di lotte, guerre e rivoluzioni, la determinazione e l’eroico coraggio con cui il proletariato dell’America latina sta affrontando lo scontro con i governi borghesi nazionali costituiscono un esempio per il proletariato di tutti gli altri Paesi.
Crisi economica di lungo corso
È la crisi di lungo corso che attraversa l’economia mondiale a partire dal 2008 la ragione di fondo dei fenomeni insurrezionali che si sono sviluppati in America latina già nel 2019. Quella crisi si è poi approfondita per effetto del crollo della produzione mondiale determinato dalla pandemia di coronavirus, innescando una nuova ondata di processi insurrezionali che hanno avuto inizio nell’autunno del 2020 e sono tuttora in corso.
La crisi economica mondiale esplosa nel 2008 con il crollo di Wall Street è una crisi strutturale di lungo periodo, ben distinguibile dalle normali e fisiologiche crisi congiunturali che attraversano tutta la storia del capitalismo. Come spiegava Trotsky (1): «Nei periodi di rapido sviluppo capitalistico le crisi sono brevi e di carattere superficiale. Mentre i boom si prolungano ed acquistano dimensioni considerevoli. Nei periodi di declino capitalista, le crisi sono di carattere prolungato, mentre i boom sono limitati, superficiali e speculativi. Nei periodi di ristagno le fluttuazioni si producono allo stesso livello». Non possiamo affatto trascurare l’importanza di queste considerazioni, soprattutto se siamo interessati a cercare di comprendere, per quanto possibile, la futura evoluzione della lotta delle classi sociali in America latina e nel mondo.
Ci sembra, a tale scopo, necessario ricordare che l’effetto della restaurazione del capitalismo in Cina, nei Paesi dell’ex-Unione Sovietica e nella stessa Cuba era stato quello di favorire, a partire all’incirca dagli anni ’90, una nuova divisione internazionale del lavoro basata sulla delocalizzazione della produzione industriale principalmente nei Paesi dell’est asiatico, dove i costi irrisori della manodopera e le condizioni dittatoriali di sfruttamento della classe operaia hanno consentito agli Stati imperialisti di accumulare enormi capitali. In questo quadro, i Paesi semi-dipendenti e dipendenti del Sudamerica e dell’Africa, controllati da borghesie nazionali in affari con le multinazionali imperialiste, svolgevano e tuttora svolgono principalmente il ruolo di fornitori delle materie prime al mercato mondiale. L’apertura di nuovi immensi mercati e la crescita a due cifre del Pil cinese nei primi anni del 2000 simboleggiavano questa età dell’oro del grande capitale. La vendita sostenuta del petrolio e della gran parte delle materie prime di cui necessita la produzione industriale, durante questa fase espansiva del capitalismo, ha consentito alle borghesie di molti Paesi dell’America latina di fare enormi profitti e, quando necessario, di corrompere le dirigenze sindacali e politiche del movimento operaio. Difatti, pur avendo un carattere solo in apparenza diverso, non si discostano molto dalle politiche neoliberiste dei governi di destra quelle dei governi bonapartisti di sinistra, il cosiddetto socialismo bolivariano del XXI secolo, tanto acclamato dalla sinistra riformista e centrista mondiale (in cui includiamo pure organizzazioni che si definiscono trotskiste, come la Tmi). Sull’onda delle mobilitazioni di massa che hanno ad esempio attraversato la Bolivia e il Venezuela i leader populisti di queste organizzazioni «socialiste» hanno dapprima preso il potere, prospettando alle masse popolari una rottura con l’imperialismo, per poi sedersi al tavolo con i rappresentanti del capitalismo finanziario mondiale e spartire con essi i proventi derivanti dalla vendita delle risorse naturali dei loro Paesi al mercato mondiale.
Stagnazione e crisi politiche
Quando poi, nel 2008, il crollo di Wall Street ha suonato le campane a morto della lunga fase espansiva del capitalismo, aprendo a una lunga fase di stagnazione dell’economia mondiale, tutti i governi di destra e di sinistra dell’America latina sono entrati in una crisi profonda e per certi versi irrisolvibile. Se la richiesta di materie prime da parte del mercato mondiale aveva trainato le economie nazionali sudamericane, il crollo della domanda ha aperto una seconda fase durante la quale questi Paesi hanno cominciato a ricavare introiti insufficienti dall’esportazione dei loro prodotti e delle loro risorse, molto minori degli esborsi di capitale necessari per le importazioni. Questo ha determinato un deficit delle partite correnti (differenza tra gli introiti derivanti dalle esportazioni e gli esborsi dovuti alle importazioni) che si è progressivamente approfondito dal 2008 ad oggi, come si deduce dal grafico di figura 1. Per tentare di contrastare questo deficit i governi borghesi nazionali hanno dovuto indebitarsi sempre più con i centri della finanza mondiale -aumentando peraltro sul lungo termine questo deficit- e hanno scaricato i costi di questo indebitamento sulle classi subalterne, le cui condizioni materiali, a dire il vero, non erano per nulla floride neanche durante la fase espansiva che ha preceduto la crisi del 2008, se è vero che il divario economico tra le classi sociali era in questi Paesi tra i più alti al mondo, come riassume l’indice di Gini (figura 2). Inoltre, le valute locali sudamericane non hanno la stessa stabilità né dell’euro né del dollaro. Per questa ragione le impennate inflazionistiche, che possono essere tenute maggiormente sotto controllo in Europa e negli Usa dagli interventi delle banche centrali, hanno messo a dura prova le condizioni di sussistenza dei lavoratori e dei poveri dell’America latina, facendo aumentare a dismisura il tasso di povertà. Questo ha condotto ai noti fenomeni insurrezionali esplosi in Ecuador, Haiti, Cile, Colombia nell’autunno del 2019 e di cui abbiamo già parlato in modo dettagliato in un precedente articolo (2).
A questa seconda fase ne è seguita poi una terza, determinata dall’aggravamento della crisi economica mondiale prodotto dalla pandemia. Nelle odierne ascese rivoluzionarie, che si sono sviluppate a partire dall’autunno del 2020, si combinano due forme di protesta delle classi subalterne: quelle contro il peggioramento delle condizioni materiali, derivante dal crollo della produzione mondiale prodotto dalla pandemia, e quelle contro l’incapacità dei governi borghesi nazionali di sviluppare misure sanitarie adeguate a contrastare in modo efficace la diffusione del virus.
Sarà in grado il capitalismo di trovare un nuovo equilibrio? Secondo Trotsky (1): «In linea teorica e astratta, il ristabilimento dell’equilibrio capitalistico è possibile. Ma non avviene in un vuoto sociale e politico, può avere luogo solo passando attraverso le classi. Ogni passo, se pur minimo, verso un ristabilimento dell’equilibrio nella vita economica è un colpo all’instabile equilibrio sociale su cui i signori capitalisti continuano a reggersi. E questa è la cosa più importante.»
Ammesso e non concesso, dunque, che il sistema capitalistico riesca ad uscire da questa crisi mondiale e a ristabilire un nuovo ordine, questo non si verificherà in modo indolore ma dovrà passare attraverso la verifica delle relazioni tra la borghesia e le altre due classi sociali coinvolte nella crisi, il proletariato e i ceti medi.
Figura 1: Andamento delle partite correnti in alcuni Paesi dell’America latina (dati tratti dal sito della Banca mondiale).
Figura 2: Indice di Gini in alcuni Paesi dell’America latina e per confronto anche in Germania e Francia. N.b: Un indice di Gini pari a 0 simboleggia perfetta uguaglianza tra gli individui di una società; un indice di Gini pari a 100 simboleggia massima diseguaglianza. (dati tratti dalla Banca mondiale).
Pandemia
Come risulta ormai evidente anche ai più scettici, la pandemia di coronavirus ha portato alla luce tutti i limiti del sistema capitalistico a livello mondiale, persino nei Paesi imperialisti più potenti, come le immagini delle fosse comuni a New York raffigurano in modo eloquente. Se quindi è vero che nessun Paese è riuscito a contrastare in modo efficace la pandemia, è però altrettanto vero che sono stati i Paesi semi-coloniali dell’America latina e dell’Africa a pagare il prezzo più elevato (3). Dal momento in cui i primi vaccini sono stati prodotti, è apparsa difatti chiaramente la subalternità di questi Paesi all’imperialismo: mentre gli Stati imperialisti hanno potuto, seppur tra mille contraddizioni interne, procedere all’acquisto o alla prenotazione di un numero più elevato di vaccini, la gran parte dei Paesi semi-dipendenti è stata sostanzialmente esclusa o messa in coda nella distribuzione. I ritardi nella consegna delle dosi e i quantitativi assolutamente insufficienti a progettare una vaccinazione di massa hanno alimentato profondamente il malessere delle classi subalterne dell’America latina. Ad amplificare ulteriormente questo malessere hanno contribuito sia la corruzione di molti governi, che hanno utilizzato persino la pandemia per lucrare sulla pelle della povera gente, che le condizioni disastrose dei sistemi sanitari nazionali, determinate da ormai trentennali politiche neoliberiste che hanno trasformato in un miraggio il diritto alla salute delle masse sudamericane.
In quel che segue passeremo in rassegna i principali avvenimenti della lotta di classe in alcuni di questi Stati, seguendo l’ordine temporale degli eventi rivoluzionari che si sono sviluppati a cascata dall’autunno dello scorso anno sino alla metà di luglio di quest’anno.
Perù
Il Perù, dove il numero ufficiale di morti di covid per numero di abitanti è il più elevato a livello planetario, è oggi il simbolo di questa fase di barbarie capitalista. In realtà, come emerge dal ministero della salute peruviana, il numero effettivo di morti potrebbe anche essere il doppio di quello ufficiale (ad oggi 187.000 su una popolazione totale di circa 33 milioni di abitanti). Sin dall’estate dello scorso anno la gestione dell’emergenza sanitaria è stata un disastro. Senza un piano di lockdown e di tracciamento serio, il virus ha contagiato a macchia d’olio gran parte della popolazione e le strutture sanitarie non hanno retto l’onda d’urto. La vendita al mercato nero delle bombole di ossigeno a un prezzo dieci volte superiore a quello di mercato ha contribuito ad alimentare il profondo malcontento della popolazione, poi esploso nei fenomeni insurrezionali del novembre scorso.
La tragedia sanitaria peruviana è la conseguenza delle politiche neoliberiste imposte, sin dagli anni ’90, dal dittatore Fujimori e perseguite da tutti i governi successivi, inclusa l’esperienza del governo di centro-sinistra di Victor Perez, poi suicidatosi dopo il suo coinvolgimento nello scandalo Odebrecht, che ha coinvolto tutti i presidenti peruviani e i presidenti di molti Stati sudamericani.
Analoghi effetti ha avuto la crisi economica, che ha prodotto un crollo di 11 punti percentuali del Pil e un licenziamento di massa senza precedenti nella storia del Paese, con un incremento di oltre quattro milioni nel numero di disoccupati, una distruzione del 40% dei posti di lavoro fisso e la perdita del lavoro per ancor più ampi settori di lavoro precario. Queste tensioni sono esplose nelle proteste di massa del novembre scorso, che sono durate oltre una settimana con diverse manifestazioni e marce nazionali. La repressione poliziesca è stata feroce. Nel sesto giorno di proteste, il 15 novembre, due giovani attivisti alla testa delle manifestazioni sono stati ammazzati a Lima.
La soluzione temporanea della borghesia, nel novembre del 2020, è stata quella di affidare a Sagasti la presidenza del Paese, per traghettarlo sino alle elezioni di aprile che hanno visto la vittoria di stretta misura di Castillo, leader della forza castro-chavista Perù libre. Come abbiamo avuto modo di argomentare (4) la vittoria di Castillo rappresenta, in modo distorto, la risposta della classe lavoratrice alla crisi economica e sanitaria peruviana. Come tutti i leader populisti di sinistra dell’America latina che lo hanno preceduto, Castillo non ha difatti alcuna intenzione di espropriare la borghesia dei mezzi di produzione e avviare una transizione socialista dello Stato peruviano.
Haiti
Dopo il Perù anche ad Haiti, nel febbraio del 2020, è ripresa la lotta di classe.
Occorre però ricordare che il proletariato haitiano è in realtà in una fase di mobilitazione pressocché permanente da diversi anni ed è il primo ad essere insorto nella precedente ondata rivoluzionaria del 2019. Una combattiva classe operaia, impiegata principalmente nel settore tessile, si è resa artefice di diversi scioperi anche negli anni precedenti.
Haiti è il Paese più povero dell’America latina, con una disoccupazione al 70% e una miseria estrema (5), funzionale all’imperialismo per estrarre profitti ancora più grandi dallo sfruttamento della classe operaia, attraverso salari più bassi persino di quelli dei lavoratori dei Paesi dell’est asiatico. È soprattutto nel settore tessile che i lavoratori haitiani vengono impiegati, in cambio di pochi euro al mese, dalle multinazionali americane che producono capi di abbigliamento per noti marchi (Levis, Lee, Wrangler, Gap).
La storia più recente del Paese è stata determinata dall’intervento armato dei Paesi imperialisti attraverso quella che la propaganda ufficiale della borghesia mondiale chiama una «missione umanitaria»: con la Mission des Nations Unies pour la Stabilisation en Haiti (Minustah), un contingente militare delle Nazioni unite ha invaso il Paese nel 2004 e ne ha assunto il controllo politico e militare. Molti analisti politici hanno documentato diverse migliaia di casi di abusi sessuali e di violenze da parte dei caschi blu dell’Onu durante la «missione umanitaria» (6). Dal 2016 sino al luglio di quest’anno il Paese è stato guidato, attraverso elezioni truccate e contestate dalla popolazione, da Jovenel Moise, un presidente fantoccio imposto dall’imperialismo e al centro di diversi scandali per corruzione. L’impianto neoliberista del suo governo ha approfondito l’estrema miseria del popolo haitiano, determinando diverse ascese insurrezionali. Le più recenti risalgono alle prolungate mobilitazioni di febbraio di quest’anno. Ad alimentare le proteste è stata la rabbia per il carovita, la penuria di carburante, la mancanza di cibo e le impennate dell’inflazione, oltre alla mancanza di misure sanitarie per contrastare la pandemia. Queste proteste sono state amplificate dal tentativo di Moise di prolungare il suo mandato governativo sino al 2022 impedendo lo svolgimento di nuove elezioni. Ad Haiti, la risposta dell’apparato militare alle mobilitazioni di massa di Port-au-Prince, ha seguito lo stesso copione degli altri Paesi del Sudamerica: proiettili di gomma sparati negli occhi dei manifestanti, arresti, violenze sessuali sulle manifestanti.
Una importante e recente svolta nelle vicende haitiane è l’assassinio del presidente Moise, avvenuta il 7 luglio scorso. Dalle prime ricostruzioni (7) sembrerebbe che l’attentato sia opera di mercenari colombiani appartenenti a un gruppo paramilitare vicino al presidente colombiano Ivan Duque, coinvolto in passato in omicidi di civili colombiani fatti passare come militanti delle Farc. Se ciò venisse confermato, l’omicidio di Moise rappresenterebbe un passaggio dello scontro inter-borghese in atto ad Haiti, collegato alla spartizione dei fondi provenienti dall’imperialismo e spacciati come aiuti umanitari. Non è possibile escludere che si verifichi un nuovo intervento militare imperialista per sedare la contesa tra le fazioni in lotta. Ciò che è però certo è che la fase di instabilità istituzionale, che si apre con l’omicidio di Moise, coglie la borghesia nel suo insieme totalmente impreparata a fronteggiare la profonda crisi economica e sanitaria che attraversa il Paese e potrebbe rappresentare il preludio di una nuova sollevazione di massa.
Paraguay
Anche in Paraguay è stata la pessima gestione della pandemia da parte del governo del presidente neoliberista Mario Abdo Benitez una delle cause scatenanti dei fenomeni insurrezionali iniziati il 5 marzo scorso. La mancanza di posti per le terapie intensive, l’assenza di un piano di vaccini per la popolazione e la mancanza di farmaci sanitari di base hanno determinato il crollo del sistema sanitario. Non è casuale: Il Paraguay è uno dei Paesi dove il sistema neoliberista ha raggiunto punte talmente elevate da azzerare o quasi l’investimento per le spese sociali. Inoltre la gran parte dei lavoratori non ha un contratto fisso e l’economia, anche nel settore agrario, si basa quasi esclusivamente sul lavoro precario. È principalmente questa la ragione per cui l’avanguardia di lotta è costituita da giovani, non solo studenti ma anche tanti lavoratori precari, che rappresentano i settori più esposti alla crisi economica causata dalla pandemia. Da una recente indagine dell’Organizzazione internazionale del lavoro emerge che il lavoro precario rappresenta il 68,7% circa del lavoro complessivo in Paraguay (8).
Ad Asuncion, il 6 marzo di quest’anno, una massa combattiva e rabbiosa guidata da una avanguardia giovane ha chiesto le dimissioni di «Mario ladro». Migliaia di giovani hanno assaltato il parlamento ad Asuncion al grido di «Mario dimettiti» e «Via tutti». Benitez ha risposto con un rimpasto di governo, sostituendo vari ministri, tra cui quello della salute. La polizia ha risposto in modo efferato, sparando proiettili di gomma e lacrimogeni nel centro di Asuncion e ferendo diverse decine di manifestanti. Le proteste sono proseguite nelle settimane successive con scontri e arresti di molti giovani attivisti, molti dei quali sono organizzati in movimenti studenteschi molto combattivi. Le proteste hanno determinato un rimpasto di governo. Scampato a una richiesta di impeachment grazie al sostegno degli uomini dell’ex presidente Cartes, Abdo Benitez ha dovuto sostituire molti funzionari di governo.
È interessante notare che, nonostante il Paese attraversi una fase rivoluzionaria, il governo stia tuttora cercando di aggredire ulteriormente le classi subalterne, puntando al saccheggio dei fondi pensione (Ips). Il Pt -sezione paraguaiana della Lit-Qi- ha lanciato in questi giorni un appello per la costruzione di un fronte di classe contro la riforma delle pensioni (9).
Colombia
In Colombia, che già nel 2019 si era sollevata contro il governo Duque, a determinare la ripresa delle mobilitazioni rivoluzionarie è stato il tentativo del governo Duque di far approvare un pacchetto di riforme economiche, tra cui l’estensione dell’area di tassazione ai settori più poveri della popolazione e l’incremento dell’Iva, che avrebbero approfondito la rapina dello Stato colombiano nei confronti delle classi subalterne. Incurante dei disastri prodotti da un sistema sanitario già in gran parte nelle mani di manager privati, Duque ha inoltre proposto una riforma sanitaria, contro cui si è scagliata anche la protesta della Federazione dei medici colombiani, tesa ad estendere ulteriormente la privatizzazione del sistema sanitario nazionale (10). La crisi economica prodotta dalla pandemia ha determinato un crollo del Pil di oltre 7 punti percentuali, producendo un incremento della percentuale della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, passata dal valore del 36%, che aveva prima della pandemia, all’attuale 43%. Le difficoltà economiche del proletariato colombiano sono acuite anche dalla struttura del lavoro, con la più alta percentuale mondiale (84%) di lavoratori precari, i più esposti alle crisi economiche.
Le mobilitazioni, iniziate il 28 maggio con un grande sciopero generale, sono durate oltre un mese. La repressione poliziesca, che è stata affiancata da gruppi paramilitari fascisti al soldo di Duque, ha raggiunto in Colombia livelli estremi, con centinaia di morti e diverse centinaia di desaparecidos, costringendo persino la stampa borghese mondiale e diverse organizzazioni intergovernative a stigmatizzare la feroce repressione del criminale Duque. La ferrea risposta della borghesia colombiana rivela però anche la sua estrema debolezza nell’affrontare una protesta che si è ormai estesa a tutte le principali città colombiane, determinando migliaia di assemblee popolari delle masse in lotta nel mese più caldo della lotta.
BRASILE
Di gravità comparabile con quella peruviana è la situazione sanitaria in Brasile, dove le politiche negazioniste di Bolsonaro hanno avuto un ruolo fondamentale nel determinare quello che possiamo definire, senza rischio di smentita, uno dei più grandi stermini di massa della popolazione brasiliana. Dal giugno dello scorso anno si registrano in media circa 50.000 persone contagiate ogni giorno. Un trend che non può essere invertito per la mancanza di un piano reale di vaccinazione di massa e per la corruzione dello stesso Bolsonaro, che si è reso, tra l’altro, complice di una truffa per l’acquisto di un vaccino a prezzo maggiorato. Ufficialmente il numero di morti per covid supera ampiamente le cinquecentomila persone, ma anche in Brasile il dato costituisce una netta sottostima del numero reale di morti, che diversi analisti ritengono almeno pari al doppio. Se è vero che i governi borghesi di tutti i Paesi sono responsabili del genocidio di massa creato dalla pandemia, non si può però negare che taluni governanti passeranno alla storia per la brutale idiozia della loro propaganda negazionista. Nel pieno della tragedia, mentre nel Paese si contavano 430.000 morti ufficiali per coronavirus il presidente brasiliano ha avuto l’indecenza di affermare che «ci sono alcuni idioti che se ne stanno chiusi in casa». La propaganda negazionista e criminale dei leader dell’estrema destra (da Bolsonaro a Trump a Salvini, solo per citare gli esempi più familiari) è in realtà frutto di un attento calcolo politico, finalizzato a mantenere il consenso di ampi settori di piccola borghesia, sostenitori delle aperture indiscriminate delle loro imprese anche durante le fasi di maggior crescita della curva pandemica. Il proletariato mondiale si trova compresso nella morsa di questa polarizzazione della lotta politica tra i rappresentanti del grande capitale, che hanno di fatto impedito la chiusura delle grandi fabbriche, e i rappresentanti della piccola borghesia in crisi, che spingono per l’apertura delle piccole attività commerciali, della ristorazione, del turismo. Ed è proprio l’idiozia dei rappresentanti della piccola borghesia in crisi, in Brasile come negli Stati uniti, ad aver consentito alle organizzazioni politiche della grande borghesia, il Pd negli Usa e il Pt di Lula in Brasile, di risorgere come araba fenice dalle loro sconfitte elettorali. Ad oggi, ad esempio, i sondaggi indicano un grosso vantaggio del miracolato Lula alle prossime elezioni presidenziali, con uno scarto di oltre due decine di punti percentuali su Bolsonaro.
Oltre che dalla crisi pandemica, le condizioni materiali del proletariato brasiliano sono messe a dura prova dalla crisi economica prodotta dalla pandemia, che ha determinato un crollo del Pil superiore ai 4 punti percentuali per il 2020 e un forte innalzamento negli ultimi mesi dell’inflazione, con un aumento del 9% del costo della vita (11). Secondo la Rete brasiliana per la ricerca sulla sovranità e sicurezza alimentare e nutrizionale (Red Penssam), lo scorso dicembre più del 50% della popolazione brasiliana ha avuto difficoltà nell’acquisto di beni alimentari. A questa miseria di massa si contrappone la crescita dei profitti dei grandi capitalisti brasiliani: nel primo trimestre del 2021 gli utili di 262 grandi aziende quotate alla borsa di San Paolo hanno raggiunto il valore record di 83,3 miliardi di R$, mentre le banche, che hanno guadagnato in questo periodo circa 80 miliardi di R$, hanno licenziato circa 13.000 dipendenti.
Di fronte a questa crescente polarizzazione della ricchezza e al genocidio di massa determinato dal negazionismo di Bolsonaro gli attivisti di base delle organizzazioni politiche e sindacali brasiliane hanno organizzato una risposta molto importante. La loro pressione sulle centrali sindacali le ha costrette a convocare il 29 maggio una giornata di mobilitazioni (12) durante la quale vi sono state manifestazioni oceaniche in almeno 200 centri del Paese, con proteste e scontri con la polizia. Il risultato della mobilitazione è chiaro: il popolo brasiliano vuole la caduta del governo genocida di Bolsonaro. Le masse in protesta chiedevano l’allontanamento di Bolsonaro, vaccini per tutti e sussidi di emergenza per contrastare la crisi economica. Il successo della manifestazione, che rappresenta una prima importante sconfitta del governo di Bolsonaro, è stato il punto di partenza per una mobilitazione ancora più ampia, avvenuta il 3 luglio scorso, durante la quale sono scesi in piazza i lavoratori di circa 340 città del Paese.
Cuba
Infine l’undici luglio ha cominciato a protestare anche il proletariato cubano. Sebbene vi siano difficoltà a ricevere notizie affidabili dall’isola di Cuba, con il passare dei giorni è risultato chiaro il carattere di massa delle proteste che hanno interessato tutti i principali centri del Paese. Anche in questo Paese, dove la restaurazione capitalistica è avvenuta da lunga data, le ragioni del malcontento delle masse sono le stesse di tutti gli altri Paesi: il collasso sanitario e la fame. Tutto questo è aggravato dalla presenza di un regime dittatoriale basato su un unico partito, il Pcc e sulla sua guardia armata, che ovviamente ha condotto una efferata repressione del popolo alla fame. È stato lo stesso leader maximo, Diaz-Canel, ad ammettere che le proteste partivano da comprensibili ragioni materiali, pur schierandosi immediatamente a difesa della «Rivoluzione cubana» contro quei settori di popolazione affamata che però sarebbero stati egemonizzati dalla borghesia di Miami e dell’imperialismo. In maniera grottesca, tutta la sinistra mondiale, persino alcune organizzazioni che si definiscono trotskiste, si è arroccata a difesa della «Rivoluzione», dimenticando che ne è passata di acqua sotto i ponti non solo da quando Fidel diede il via a uno Stato operaio burocratizzato sull’isola e alla prima esperienza socialista in America latina, ma anche da quando abolì il monopolio del commercio con l’estero dando il via alla restaurazione capitalista. La Lit-Qi, nel corso di questi anni, ha pazientemente ricostruito i passaggi attraverso i quali di comunista, nell’Isola, è rimasto solo il nome del partito, i cui ex burocrati si sono trasformati nei manager di un sistema di imprese che partecipa, assieme alle multinazionali imperialiste, alla spartizione dei profitti derivanti dallo sfruttamento del lavoro salariato a Cuba (13).
Strati semi-proletari e piccolo borghesi
Da alcuni anni, ormai, il proletariato mondiale ha ripreso la strada della lotta di classe. Non è solo l’America latina in subbuglio, ma anche il Medio oriente e l’Africa. L’aggravamento delle condizioni materiali delle classi subalterne produce mobilitazioni, guerre, insurrezioni e lotte persino nei Paesi imperialisti, come accaduto lo scorso anno con le mobilitazioni degli afroamericani negli Stati Uniti. Ad una analisi più attenta degli avvenimenti risulta però chiaro che ciò che accade oggi è solo il portato di una più lunga fase dello scontro tra le classi sociali. Ciò appare ad esempio evidente dall’analisi della rivoluzione cilena, esplosa dopo un trentennio di lotte che però avevano riguardato principalmente il movimento studentesco.
Questi processi della lotta di classe sono dunque tutt’altro che lineari e si sviluppano spesso in modo contraddittorio, per cui ad una fase particolarmente esplosiva dello scontro può far seguito poi un periodo più o meno lungo di riflusso e di ripresa del controllo da parte dei governi borghesi. Queste continue oscillazioni tra rivoluzione e contro-rivoluzione sono la risultante di una serie di fattori economici e sovrastrutturali- il cui esito non può essere determinato a priori- che riflettono i rapporti tra le classi sociali e le loro divisioni interne.
In particolare, se è vero che le due grandi classi sociali coinvolte nel processo di produzione dei beni materiali sono il proletariato e la borghesia, non si può però trascurare che le pulsioni che attraversano le classi medie e i settori piccolo-borghesi giochino un ruolo molto importante nello stabilire il successo o la sconfitta della rivoluzione. I ceti medi, principalmente per le loro condizioni reddituali, sono solitamente meno disponibili a una critica radicale del sistema capitalista. Durante le fasi iniziali di crisi questi settori sono quelli più restii ai cambiamenti, proprio perché non vogliono perdere quei privilegi derivanti dal ruolo intermedio che occupano nella società. Lo spiegava già Marx nel Manifesto del partito comunista. È tuttavia di Trotsky, probabilmente, l’analisi più completa del ruolo della piccola borghesia durante le fasi di crisi del capitalismo. In particolare, analizzando la nascita del fascismo, Trotsky scriveva (14): «La società contemporanea è composta da tre classi: la grande borghesia, il proletariato e le “classi medie” o piccola borghesia. Le relazioni tra queste tre classi determinano in ultima analisi la situazione politica nel Paese. Le classi fondamentali della società sono la grande borghesia e il proletariato. Solo queste due classi possono avere una politica indipendente, chiara e conseguente. La piccola borghesia è caratterizzata dalla sua dipendenza economica e dalla sua eterogeneità sociale. Il suo strato superiore confina immediatamente con la grande borghesia. Il suo strato inferiore si fonde con il proletariato e persino cade nella condizione di sottoproletariato. Conformemente alla sua posizione economica la piccola borghesia non può avere una posizione indipendente. Oscilla sempre tra i capitalisti e gli operai. Il suo strato superiore la spinge a destra; i suoi strati inferiori, oppressi e sfruttati, in certe condizioni, sono capaci di effettuare una brusca svolta a sinistra. Appunto queste relazioni contraddittorie tra i diversi strati delle “classi medie” hanno sempre determinato la politica confusa e assolutamente inconsistente dei radicali, le loro esitazioni tra il cartello con i socialisti, per calmare la base e il blocco nazionale con la reazione capitalista per salvare la borghesia […] Il contadino povero, l’artigiano, il piccolo commerciante si convincono in realtà che un abisso li separa da tutti i sindaci, da tutti gli avvocati…che per il loro modo di vivere e le loro concezioni sono grandi borghesi».
Come spiega poi successivamente Trotsky, nelle fasi in cui i partiti del movimento operaio sono deboli gli strati piccolo borghesi si rivolgono ai fascisti, per tentare una soluzione politica indipendente. Scrive difatti (14): «I radicali, tra cui ci sono troppi cialtroni, si sono venduti definitivamente ai banchieri; i socialisti promettono da lunga data di eliminare lo sfruttamento, ma non passano mai dalle parole ai fatti; dei comunisti, chi ne capisce niente: oggi è una cosa domani un’altra; vediamo se ci salvano i fascisti». Queste oscillazioni dei ceti medi sono una costante dei processi di crisi del capitalismo, come la storia ci ha insegnato in tante occasioni, anche durante l’esperienza cilena del 1973.
La resistenza dei ceti medi e piccolo-borghesi ad abbracciare un progetto rivoluzionario appare oggi con chiarezza anche in America latina. Ne è un esempio quanto si è verificato durante le elezioni dell’Assemblea costituente cilena, che hanno visto una buona tenuta di quelle organizzazioni politiche di centro-sinistra, come il Pc e il Frente amplio (Fa), che si sforzano di rappresentare gli interessi degli strati semi-proletari e della piccola borghesia progressista. Il ruolo controrivoluzionario di queste organizzazioni è apparso abbastanza evidente durante il periodo rivoluzionario dell’autunno del 2019. Fu difatti proprio il Fa a consentire al governo Pinera di incanalare la rivoluzione cilena sui binari morti dell’assemblea costituente. Avendo in tal modo sospeso il processo rivoluzionario, le principali forze politiche cilene cercano di evitare che il processo rivoluzionario possa approfondirsi attraverso lo sviluppo di una reale democrazia operaia, cioè attraverso l’allargamento della rappresentanza politica ai delegati eletti nei consigli di fabbrica, nelle campagne, in tutti i luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università e nelle assemblee popolari delle popolazioni indigene. Ad oggi, purtroppo, sia il Fa che il Pc, che propendono per una «democratizzazione» della Costituzione del ’90 senza porre in discussione la natura borghese dello Stato, controllano attualmente ancora importanti settori di classe operaia e di strati semi-proletari cileni.
Oltre agli strati semi-proletari e alla piccola borghesia progressista, esistono poi, in tutta l’America latina, importanti settori di piccola borghesia reazionaria che vedono come la peste la rivoluzione proletaria e forniscono oggi il supporto economico ai gruppi paramilitari che affiancano la controrivoluzione dei governi borghesi nazionali dell’America latina. Un salto di qualità della rivoluzione dell’America latina non può dunque prescindere dal problema della forza, cioè dell’autodifesa delle assemblee popolari e delle mobilitazioni del proletariato da parte delle forze rivoluzionarie.
Un altro elemento da cui non si può prescindere quando si voglia definire il livello di maturazione di un processo rivoluzionario è il ruolo dei settori di base, di estrazione proletaria, delle forze militari. Tali settori vivono in una perenne contraddizione, poiché sono costretti a combattere contro la loro stessa classe sociale. Nella storia del movimento operaio è stato spesso decisivo il passaggio dei settori di base degli apparati militari dalla parte della rivoluzione. A differenza degli ultrasinistri e degli anarchici, i marxisti ritengono che sia fondamentale lavorare alla fraternizzazione tra il movimento rivoluzionario e i settori proletari dell’esercito. La conferma della bontà di questo approccio è proprio nella reazione degli apparati borghesi agli appelli alla fraternizzazione da parte del nostro partito in Cile. Non è un caso che Maria Rivera, dirigente del Mit- sezione cilena della Lit-Qi-, sia stata infatti denunciata per sedizione dai vertici dei carabineros per aver invitato i settori proletari di base degli apparati militari cileni a schierarsi dalla parte della rivoluzione.
Sinistra riformista e burocrazie sindacali, bastioni della controrivoluzione
Come abbiamo descritto in questo articolo, i processi rivoluzionari che attraversano tutta l’America latina risultano, nonostante la loro esplosività, ancora frammentari e incapaci di scardinare il potere borghese. Ma se ciò accade non è perché, come narrano i riformisti e i centristi, le rivoluzioni sono impossibili. Se ciò si verifica è perché questi processi non sono giunti ancora nel pieno del loro processo di maturazione. L’inerzia iniziale degli strati semi-proletari e della piccola borghesia può agire come elemento di freno ma non è la causa principale, che va invece ricercata nel ruolo controrivoluzionario delle organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio e nella debolezza delle organizzazioni rivoluzionarie. Cerchiamo di dettagliare meglio questo aspetto, che, nella nostra lettura, rappresenta il cuore del problema.
Se si analizza la composizione di classe dell’avanguardia rivoluzionaria che si sta formando in America latina si deduce che essa è costituita, in larghissima parte, da giovani lavoratori precari e in misura minore da settori molto combattivi del movimento studentesco, in Cile come in Colombia, in Perù come in Paraguay. Ciò non è affatto casuale. I lavoratori senza un contratto regolare o precari costituiscono oggi la maggioranza del movimento operaio a livello mondiale (61%) e ancor più in America latina, con punte particolarmente elevate proprio in Paraguay (68,7%) e Colombia (84%). Questi lavoratori sono i più esposti alle crisi economiche, non avendo alcun ammortizzatore sociale quando non lavorano.
Tuttavia, da marxisti, pensiamo che, senza la formazione di un’avanguardia diffusa all’interno della classe operaia industriale, sia molto più difficile che tali processi possano condurre a un’alternativa socialista di società, nonostante la straordinaria disponibilità alla lotta dei lavoratori precari. E, ad oggi, la classe operaia industriale, in America latina, partecipa alla rivoluzione ma non ne costituisce l’avanguardia. L’egemonia nelle centrali sindacali, come la Cut colombiana o quella cilena, dei burocrati sindacali collegati alla sinistra riformista costituisce il freno principale al coinvolgimento diretto della classe operaia industriale nel processo rivoluzionario. Ciò è apparso molto chiaro nei recenti avvenimenti colombiani e brasiliani. In Colombia il comportamento del Cnp (Comitato nazionale di sciopero), egemonizzato dai burocrati sindacali della Cut, è stato a dir poco vergognoso: dopo essere stati costretti, sulla pressione della base lavoratrice, a chiamare alla sciopero generale il 28 aprile, sin dal giorno dopo il Cnp ha invitato i lavoratori a rientrare nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, rimanendo totalmente indifferente rispetto alla mattanza dei manifestanti, condotta in modo brutale dal governo del criminale Duque e dai gruppi paramilitari fascisti. Un comportamento simile fu tenuto dalla Cut in Cile durante la rivoluzione dell’ottobre del 2019, ma in quel caso la pressione della classe operaia riuscì, nelle fasi calde dell’autunno, a vincere diverse volte il freno delle burocrazie sindacali. La strategia delle grandi burocrazie sindacali, in America latina come in molte altre parti del mondo, è quella di usare la pressione delle basi di massa per mostrare al padronato, attraverso le mobilitazioni, la potenzialità rivoluzionaria del movimento operaio. Queste mobilitazioni però, invece che costituire il punto di partenza di un processo di auto-organizzazione nei luoghi di lavoro che possa prefigurare una situazione di dualismo di poteri, vengono usate dai dirigenti sindacali solo per poter essere convocati ai tavoli di contrattazione con il governo. Come dimostrano gli avvenimenti colombiani, questi tavoli di negoziazione si rivelano però puntualmente un fallimento: delle oltre 100 richieste del Cnp dopo la fase insurrezionale del 2019, nessuna di queste è stata presa in considerazione dal governo Duque, che al contrario, dopo due anni, ha provato a rilanciare l’attacco alle classi subalterne con un secondo Paquetazo.
Contemporaneamente, le dirigenze politiche della sinistra riformista, che in maniera più o meno articolata esercitano una egemonia sulle grandi centrali sindacali, fingono, quando gli è possibile, di sostenere le rivendicazioni minime provenienti dalle masse in lotta, in modo da poter incassare consensi alle successive tornate elettorali. Ma questo sostegno si rivela sempre più artificioso e sporadico, proprio per il coinvolgimento di queste forze di sinistra nella gestione degli affari della borghesia. In taluni casi, addirittura, sono le stesse forze della sinistra che si pongono contro le rivendicazioni delle masse proletarie in lotta, come accaduto di recente in Brasile, dove la sinistra riformista brasiliana, colta di sorpresa dall’ampiezza della mobilitazione di massa del 29 maggio nello Stato di Recife, è stata costretta a svelare apertamente la sua natura reazionaria: il governatore Paulo Camara del PsB (partito socialista del Brasile), il cui vice appartiene al PcdB, un partito stalinista brasiliano, ha ordinato la repressione da parte della polizia delle manifestazioni contro Bolsonaro. E lo stesso Pt, il partito di Lula, per evitare che la mobilitazione del 29 maggio potesse strabordare, ha fatto appello ai lavoratori a non scendere in piazza durante le manifestazioni.
Se le organizzazioni della sinistra riformista e del sindacalismo economicista riescono a svolgere un ruolo di mediazione tra le classi sociali e di freno della rivoluzione durante le fasi di crescita dell’economia, esse però perdono progressivamente la loro capacità di contenere la pressione della base operaia nel momento in cui l’economia capitalista entra in crisi. Se e quando la rottura tra la base operaia e le grandi centrali sindacali si verificherà non è tuttavia un elemento prevedibile, perché dipende dialetticamente da due principali fattori: l’approfondimento o meno della crisi e lo sviluppo del partito rivoluzionario.
L’importanza del partito rivoluzionario
A partire dall’analisi svolta riteniamo che il principale salto qualitativo dei processi rivoluzionari dell’America latina si potrà dunque verificare soltanto attraverso la formazione di una capillare avanguardia marxista all’interno della classe operaia industriale. Solo una tale avanguardia può difatti contrastare il ruolo delle burocrazie sindacali all’interno delle assemblee operaie e svelare agli operai l’incompatibilità con i principi della democrazia operaia del meccanismo di delega una tantum ai dirigenti sindacali calati dall’alto dalle grandi centrali burocratizzate. I delegati degli operai devono poter essere eletti all’interno delle assemblee di fabbrica e devono costantemente rappresentare, negli organi di coordinamento dei delegati e nei comitati di sciopero, le rivendicazioni espresse dalle assemblee stesse. Per questa ragione le deleghe devono poter essere revocate dalle stesse assemblee dei lavoratori, non dai dirigenti dei sindacati. Questa è una delle principali lezioni che deriva dallo studio dei processi rivoluzionari più importanti, come l’esperienza della Comune di Parigi e la Rivoluzione d’ottobre del 1917. Devono cioè essere gli operai -e non i dirigenti delle centrali sindacali- attraverso il coordinamento nazionale dei delegati eletti nei luoghi di lavoro, a poter stabilire democraticamente se e quando è il momento di fare uno sciopero generale e quale piattaforma rivendicativa avanzare.
Questo compito di sistematica denuncia delle decisioni calate dall’alto delle centrali sindacali burocratizzate può essere portato avanti solo dai rivoluzionari, poiché essi rappresentano l’avanguardia più cosciente del proletariato, cioè costituiscono l’unico settore della classe operaia ad aver compreso che nessuna delle rivendicazioni parziali, sia essa di carattere salariale o riguardante le condizioni di lavoro, può essere soddisfatta nell’attuale sistema di sfruttamento capitalista.
Solo l’avanguardia marxista può inoltre portare, nelle assemblee operaie, un programma che colleghi le lotte immediate con la prospettiva del socialismo. Questo aspetto ha un enorme rilevanza proprio in America latina, dove la propensione rivoluzionaria alla lotta dei giovani lavoratori precari è mitigata da un programma di rivendicazioni minime che consente ai partiti riformisti di avere ancora una presa su importanti settori del movimento.
C’è infine un aspetto, probabilmente quello più urgente, che necessita della crescita delle avanguardie marxiste all’interno dei processi rivoluzionari in corso: la necessità di sviluppare sia all’interno dei luoghi di lavoro che nelle assemblee popolari e nelle manifestazioni quegli organismi di autodifesa che siano in grado di affrontare la repressione. Questa esigenza appare improcrastinabile, soprattutto alla luce della durissima repressione in Colombia che ha prodotto diverse centinaia tra morti e desaparecidos.
È per questa ragione che il successo o la sconfitta della rivoluzione in America latina dipenderà, in definitiva, dalla crescita o meno delle sezioni della Lit-Qi presenti nei vari Paesi.
NOTE
-
https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1921/boom-crisi.htm
-
https://www.alternativacomunista.it/politica/internazionale/la-menzogna-della-fine-della-pandemia
-
https://litci.org/es/minustah-abuso-y-explotacion-sexual-infantil-en-haiti/
-
https://litci.org/es/el-caso-de-haiti-muestra-que-el-ejercito-de-colombia-es-una-maquina-mercenaria/
-
https://litci.org/es/queremos-sacar-a-bolsonaro-ya-pero-tambien-el-fin-de-la-desigualdad-social/
-
https://litci.org/es/la-cuba-de-fidel-de-la-revolucion-a-la-restauracion/?fbclid=IwAR3p9l0wwPl16AWs4a5gWOHSQPK1v4RTWCnQ4cQnOZUv280-OsCHjM3XYhA
-
Lev Trotsky: Le «classi medie», il partito radicale e il fascismo, pag.492-494 in: Trotskij- Scritti, 1929-1936, ed. Oscar Mondadori