Partito di Alternativa Comunista

Elezioni negli Stati Uniti

Elezioni negli Stati Uniti
COSA C’E’ DI NUOVO IN BARACK OBAMA?
 
 
di Wilson H. Silva (*)
 
La rapida ascesa di Obama rivela che non sono pochi i poveri, i neri, gli immigrati e sfruttati del Nord America che vedono nel senatore nero il “volto nuovo” e ripongono in lui le loro speranze. Ciò nondimeno, la sua traettoria politica e le sue dichiarazioni lo avvicinano più a Condoleezza Rice che ai dirigenti neri nordamericani degli anni Sessanta.
Obama: elogiare Reagan e glissare sulle truppe in Irak?
Nato il 4 agosto 1961, a Honolulu, nelle Havaii, Barack Obama è figlio di un uomo politico e intellettuale keniota e di una professoressa del Kansas. Particolare interessante è che, da diverso tempo, Obama ha smesso di usare il suo secondo nome, Hussein, di origine musulmana, per ragioni “ovvie” nella società statunitense.
Prima di diventare uno dei senatori più giovani del Paese nell’Illinois, nel 2004, Obama ha frequentato alcune delle scuole più rinomate degli Usa, tra cui l’Università di Harvard, dove ha studiato Diritto. Da sempre attivo nel Partito Democratico, Obama iniziò la sua carriera politica all’Università e, con l’appoggio del senatore nero Jesse Jackson Jr e di celebrità come Michael Jordan, è arrivato al Senato con un programma “tipico” dei democratici: a favore dell’aborto, difesa della regolamentazione nella vendita delle armi, unioni civili tra omosessuali”. Ha appoggiato il taglio delle tasse per le classi medie, annunciato da Bush, e ha sostenuto inizialmente anche la necessità di un aumento delle imposte per i settori più ricchi della società.
E’ stato con la Convenzione del Partito Democratico sulle elezioni che Obama ha pronunciato il discorso che condensa le sue posizioni: “Non c’è un’America [così certi statunitensi, in modo delirante, definiscono il loro Paese, ndr] liberal e un’altra conservatrice; ci sono solo gli Stati Uniti d’Amercia. Non c’è un’America nera, un’America bianca o un’America asiatica, ci sono solo gli Stati Uniti d’America.”
Questo discorso calza come un guanto su un Paese ancora inebriato dall’ultranazionalismo successivo all’”11 settembre” ed è già stato utilizzato da Bush per rispondere alle rivendicazioni dei settori maggiormente oppressi.
Dal punto di vista etnico, è importante ricordare che il discorso di Obama è tipico di una generazione di neri che, essendo cresciuti all’ombra delle poche (ma importantissime) conquiste ottenute negli anni Cinquanta e Sessanta, si sono formati politicamente nel contesto del “neoliberismo”, fortemente influenzato dai luoghi comuni sulla “fine delle ideologie” e dalla crisi delle organizzazioni radicali negli Usa.
Un discorso che, sia detto di passata, trova ispirazione nei “miti” di Obama, tra cui il presidente Ronald Reagan di cui il senatore ha dichiarato nell’autobiografia di essere un estimatore, laddove afferma che il presidente-cowboy era “in connessione con la nostra necessità di credere che non siamo soggetti solo a forze impersonali o cieche, ma che possiamo forgiare il nostro destino individuale e collettivo, se sapremo tornare a scoprire le virtù tradizionali del lavoro duro, del patriottismo, della responsabilità individuale...”
Questa vicinanza con il conservatorismo patriottico di Reagan è evidente anche nelle posizioni di Obama rispetto la guerra in Irak. Sempre glissando su questo tema, affermando che bisognerebbe ritirare le truppe “il prima possibile”, Obama non ha mai chiarito come e quando attuerebbe questo ritiro. Ma la sua attività al Senato ci dà un’idea di quello che farebbe una volta insediato alla Casa Bianca.
Uno dei punti forti della sua disputa con Hillary Clinton è stato sul voto a favore della guerra dato dalla senatrice nel 2002. L’”ironia” della storia è che il senatore stesso ha dichiarato, più di una volta, che all’epoca di quel voto ebbe la “fortuna di non essere ancora senatore”, ciò che gli ha risparmiato di confrontarsi con la fiammata di patriottismo che bruciava il Paese.
Nel campo economico, le promesse di Obama sono ancora più vaghe e vengono esposte in un programma elettorale infarcito di proclami sulla “lotta contro la povertà”, mescolati con promesse di riduzione delle imposte per i più ricchi e di rassicurazioni alle classi medie che saranno preservati i benefici fiscali di cui godono.
La traduzione di questo programma in cifre raggiunge il ridicolo. Obama ha annunciato un piano di 75 miliardi di dollari (una minima parte del bilancio usato annualmente per le missioni militari) per stimolare l’economia Usa attraverso l’apertura immediata di  un credito di 250 dollari per ogni lavoratore e un fondo di 10 miliardi di dollari per sanare i debiti del crollo del mercato immobiliare. La proposta di Hillary è simile, appena di 5 miliardi più costosa.
 
Perché non sostenere Obama?
Poveri, neri, immigrati e sfruttati statunitensi vedono in Obama un “nuovo tipo di politico”, la “novità” in queste elezioni.  Non sono pochi nemmeno i militanti, specialmente nel movimento dei neri, che sperano di poter vedere un presidente nero alla Casa Bianca. Noi non siamo tra loro, pur comprendendo lo spirito che anima queste illusioni.
Noi non sosteniamo e non sosterremo mai uno come Obama. Primo, perché non ha nulla a che vedere con i reali interessi degli sfruttati e degli oppressi degli Usa e del mondo. Secondo, ma non di minor importanza, perché Obama, travestito da agnello, può rappresentare una comoda via di fuga per la borghesia imperialista statunitense (conviene ricordare che non a caso l’enorme investimento finanziario della sua campagna elettorale è sostenuto da alcuni dei principali gruppi finanziari Usa): borghesia che è consapevole che il Paese sta per cadere in una crisi economica che farà emergere le gigantesche esigenze represse delle masse.
A puro titolo d’esempio si può citare una ricerca divulgata in questi giorni dalle Università di Harvard (Usa) e McGill (Canada) che indica negli Usa uno dei più arretrati Paesi del mondo in materia di diritti sociali e politici. Per lo stupore di quelli che vedono nel Paese dello Zio Sam una società che offre opportunità a tutti, è bene sapere che negli Usa non c’è indennità di malattia, indennizzo del lavoro notturno, ferie o riposo settimanale retribuito e che questo Paese, tra i 173 presi in esame, è uno dei cinque (insieme a Liberia, Suazilandia, Papua Nuova Guina e Lesoto) che non concede il permesso per maternità.
Questa situazione, evidentemente, pesa in primo luogo sulle condizioni di vita dei settori storicamente emarginati e della gioventù: quegli stessi settori che pure, purtroppo, oggi affidano le loro speranze in Obama. Stiamo parlando non di piccole “minoranze” etniche ma di ben 100 milioni di persone (44,3 milioni di ispanici, che sono il gruppo più grande, con il 14,8% della popolazione; 40,2 milioni di neri; 14,9 milioni di asiatici e 4,5 milioni di indigeni).
In aggiunta ai dati ufficiali, ci sono almeno 12 milioni di lavoratori “illegali" che fanno i lavori più pesanti, in nero. Lavoratori ai quali tanto Obama come Hillary, con il loro voto al Senato, hanno “dedicato” la nuova legge sulla "sicurezza", approvata nel 2007, che mentre legittima la “guerra al terrorismo” aumenta ulteriormente i poteri delle forze di repressione alle frontiere e nella caccia ai “clandestini”.
E’ come conseguenza di queste cifre (e della paranoia dell’”11 settembre) che sono cresciuti i livelli di discriminazione etnica. In particolare nella scuola dove, negli ultimi dieci anni, la Corte Suprema ha annullato varie delibere a favore di politiche di “azione affermativa”. Per avere un’idea dei risultati, basti dire che oggi il 70% degli studenti neri studia in istituti dove le minoranze (neri, asiatici e latini) costituiscono la maggioranza e almeno un terzo di essi frequenta istituti dove i neri costituiscono quasi il 100% del corpo studentesco.
Si aggiunga a tutto ciò la campagna per la revisione peggiorativa della legislazione sull’aborto, l’esistenza di 44 milioni di persone prive di assistenza sanitaria e avremo chiaro lo scenario in cui si inserisce la figura conciliatrice e “integrata nel sistema” rappresentata da Barack Obama.
Un nero che, presentandosi come espressione di Stati Uniti “post-razzismo”, mentre approfitta del suo essere nero per influenzare le comunità più oppresse, relega in secondo piano le rivendicazioni storiche dei settori maggiormente sfruttati. Insomma, un candidato costruito su misura per “cambiare tutto perché nulla cambi”.
 
(*) l’autore è membro della redazione di Opiniao Socialista e della Segreteria Nazionale dei Neri e delle Nere del Pstu (sezione brasiliana della Lit)
 
(traduzione dal portoghese di F. Ricci)

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