Partito di Alternativa Comunista

Europa, Recovery Fund Chi salva chi?

Europa, Recovery Fund
 
Chi salva chi?
 
 
 
 
 
di Alberto Madoglio
 
 
 
L’accordo col quale i ventisette Paesi dell’Unione europea hanno dato vita al Recovery Fund è stato accolto con squilli di tromba e fanfare in tutte le cancellerie del Vecchio Continente, in particolare a Palazzo Chigi, sede del governo nazionale.
Dopo quattro giorni di lunghe ed estenuanti trattative, i membri dell’Unione hanno senza dubbio ottenuto un risultato significativo: sono riusciti ad evitare che la pesante crisi economica, che ha subito una accelerazione con la comparsa della pandemia di Covid 19, travolgesse tutta l’impalcatura istituzionale finanziaria continentale, gettando le varie economie imperialiste in una situazione difficile da affrontare. Se consideriamo che l’Unione europea sta affrontando un’altra battaglia, la Brexit, della quale nessuno parla ma che è ben lungi dall’avere una soluzione positiva, e che rischia di avere effetti di peso per entrambi i contendenti, l’accordo era l’unica via possibile.

Dalla propaganda alla realtà
Più passa il tempo, più gli entusiasmi iniziali si spengono e si ha un quadro più chiaro di cosa sia l’accordo: non la decantata soluzione alla crisi economica ma un tentativo di contenerne gli effetti immediati, un tentativo di guadagnare tempo in attesa di tempi (si perdoni il gioco di parole) migliori.
La somma stanziata appare a prima vista rilevante, 750 miliardi di euro. Se però teniamo presente il Pil di tutta l’Unione europea (circa 14.000 miliardi) e il periodo di bilancio cui fa riferimento (2021-2027), capiamo immediatamente quanto si tratti in realtà di una cifra molto contenuta.
Un articolo interessante apparso sul sito Attac-Italia a firma Marco Bersani ci dà alcune informazioni in merito. Non condividiamo le proposte politiche in esso contenute (Recovery Fund "sociale", modificare il ruolo della Banca centrale europea: cioè proposte che non vanno alla radice del problema e che non indicano in realtà soluzioni realistiche) ma si tratta comunque di un testo utile per l'analisi.
La somma si compone di due parti: una pari a 390 miliardi di trasferimenti, l’altra a 360 di prestiti (cioè nuovo debito); inizialmente la bozza d’accordo prevedeva una diversa ripartizione, 500-250. Parliamo di trasferimenti e non di somme a fondo perduto in quanto al finanziamento del fondo provvederanno i vari Stati con le quote di loro spettanza per sostenere il bilancio europeo.
L’Italia, che riceverà 205 miliardi tra trasferimenti e prestiti, dovrà incrementare il suo finanziamento al bilancio Ue per circa 96 miliardi. Alla fine quindi Roma otterrà nuove risorse per soli 110 miliardi. Chi voleva far credere che sarebbero arrivati soldi gratis, ora si trova in imbarazzo a spiegare come stanno veramente le cose.
Ma al di là della tempistica (i soldi arriveranno tra il 2021 e il 2023, dovranno essere rimborsati tra il 2027 e il 2058) e dei dettagli tecnici relativi ai controlli su come le somme verranno impiegate (il cosiddetto freno di emergenza che i Paesi frugali, Olanda in primis, sono riusciti a ottenere), sono gli obblighi, diciamo così, “sociali”, quelli che impatteranno di più sulle condizioni materiali delle classi sfruttate in Italia e negli altri Paesi. L’accordo prevede infatti che ogni Stato riduca la spesa pubblica dello 0,6% del Pil.
Per l’Italia, che ha già visto calare fortemente la spesa pubblica (ricordiamo che il bilancio pubblico è in attivo, prima del pagamento degli interessi sul debito, da molti anni) si preannuncia un’altra dose di austerità.
Ma non è finita qui. Oltre alle indicazioni e raccomandazioni dell’accordo, già si stanno alzando delle voci, in Italia e in Europa, riguardo la necessità di ritornare in breve tempo a una "più severa disciplina fiscale". Tutti i Paesi nel 2020 si troveranno ad affrontare enormi disavanzi di bilancio (oltre 13% per l’Italia) e un altrettanto grande aumento del rapporto debito/Pil (160% Roma).
In definitiva: è evidente che lo 0,6% indicato nelle raccomandazioni in coda all’accordo rischia di essere solo l’aperitivo di un periodo di politiche da lacrime e sangue per i lavoratori.

Gli affari prima di tutto
Altra questione da non sottovalutare è il lato politico dell’accordo e le concessioni che l’Europa ha fatto a favore di alcuni Stati membri.
Proprio nelle ore in cui le varie cancellerie alzano strali sdegnati verso la criminale politica repressiva del presidente della Bielorussia, mentre la cancelliera Merkel accusa la Russia di aver avvelenato il più famoso avversario politico del regime semi-dittatoriale di Putin, una coltre di silenzio copre i crimini contro le violazioni continue e ripetute delle più elementari norme democratiche che si compiono nel cuore stesso dell’Unione.
Le minacce di imporre sanzioni ai regimi illiberali di Ungheria e Polonia sono state archiviate, sacrificando i presunti sacri principi della democrazia europea sull’altare degli interessi economici di imprese e banche, che hanno trovato soddisfazione nell’accordo sopra citato.
Non è nemmeno sicuro che le somme stanziate siano sufficienti, non diciamo a invertire la tendenza economica in atto e a consentire che l’economia europea prenda la strada di una crescita sostenuta, ma nemmeno ad evitare guai peggiori.
Come abbiamo già ricordato altre volte in passato, il Giappone pare essere un caso di scuola per tutti i sostenitori di scelte economiche neo- keynesiane di intervento pubblico. Durante i mesi scorsi il Sol Levante ha subito un calo del Pil inferiore a quello di Usa e Europa ma superiore a quello di altri Paesi vicini. E questo nonostante uno stanziamento di risorse pubbliche di 1000 miliardi di euro tra investimenti e risorse date direttamente ai cittadini. Una cifra che in termini assoluti e in percentuale è ben al di sopra di quanto stanziato a livello continentale ma che non è stata sufficiente a evitare il fallimento di otto anni di Abenomics.
Anche ipotizzando che in Europa le cose dovessero andare diversamente, già sappiamo come sarebbero distribuiti i benefici.
Il presidente di Confindustria ci ricorda quotidianamente che il contratto nazionale è ormai un residuo del passato e che gli aumenti di salario e stipendio debbano essere stabiliti azienda per azienda. Il segretario della Cgil (peraltro come se non ne avesse nessuna responsabilità) lamenta il fatto che milioni di lavoratori (oltre 10) hanno il contratto scaduto, e addirittura da ormai 12 anni per quanto riguarda i lavoratori del comparto privato della sanità.

Quello che manca e quello che è necessario
Tutto questo prova ancora una volta che se ripresa ci sarà, i padroni non saranno disposti a privarsi nemmeno delle briciole. Sarà la lotta di classe, come sempre, a determinare le sorti della crisi in corso, se a pagarne il prezzo saranno padroni o operai.
Non serve a nulla lamentarsi e imprecare contro la mancanza di coraggio e dignità da parte dei padroni come fa Maurizio Landini. Ciò che deve stupire non è la grettezza e l’avidità dei capitalisti nostrani, ma la genuflessione dei leader sindacali agli interessi della borghesia. Anziché rispondere colpo su colpo alle provocazioni padronali, anziché fare appello alla mobilitazione contro governo e Confindustria, assistiamo a un patetico e inutile appello alla magnanimità e alla comprensione rivolto ai capitani d’azienda.
Non sarà dall’Europa di Bruxelles, dall’Italia, dal Recovery Fund o dalle prossime decisioni del governo Pd- 5stelle che i lavoratori otterranno finalmente ciò che spetta loro.
Solo la ripresa dello scontro di classe, degli scioperi, delle mobilitazioni di massa, potrà costringere i nostri nemici di classe ad arretrare. Ma la lotta va organizzata, politicamente e sindacalmente.
 

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