Partito di Alternativa Comunista

IL PANE DI BOCCA

 

IL PANE DI BOCCA

come il capitalismo sta affamando l'umanità

 

di Alberto Madoglio

 

 

 

Da qualche tempo ormai, e in particolare in occasione della riunione straordinaria della Fao a Roma nel giugno 2008, anche sulla stampa borghese dei Paesi occidentali la questione dell’ascesa incontrollata del prezzo dei generi alimentari, occupa uno spazio sempre maggiore.

Le notizie si susseguono in un crescendo spaventoso. Nei Paesi cosiddetti "in via di sviluppo" ci sono state vere e proprie sommosse popolari per il pane, e più in generale per rivendicare cibo più a buon mercato. In India lo scorso ottobre la popolazione del Bengala Occidentale ha incendiato centinaia di depositi alimentari, accusando i proprietari di accaparrarsi ingenti scorte da vendere poi al mercato nero. In Burkina Faso la popolazione ha assaltato palazzi governativi e negozi sempre per protestare contro gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari. In Camerun la protesta dei tassisti contro l’aumento del prezzo del carburante si è trasformata in una rivolta generalizzata della popolazione contro i prezzi degli alimenti. La dura repressione della polizia ha causato venti morti. A Haiti pare che al posto del pane siano vendute focacce di argilla (!) mischiata a cereali. Delle violente manifestazioni per il pane in Egitto abbiamo parlato qualche tempo fa in un articolo pubblicato sul nostro sito.

 

Il cibo non manca, eppure...

Secondo Rajat Nag, direttore della Banca di Sviluppo Asiatica, un miliardo di persone nella sola Asia è ora colpita dalla crisi alimentare causata dall’aumento dei prezzi, mentre un altro miliardo in Africa, America Latina e altri Paesi poveri lo sarà nel prossimo futuro. (1)

Ma come si è arrivati a tutto questo? Come è possibile che il prezzo di alcune derrate alimentari di largo consumo come riso, mais, frumento sia aumentato del 50, 80, 100 percento nel giro di pochi mesi, e l’indice dei prezzi alimentari calcolato dal Financial Time, che dal 1850 (data della sua istituzione) al 1950 era stato praticamente stabile, sia schizzato verso l’alto negli ultimi decenni e che dal 2005 abbia segnato un aumento del 75 percento?

La risposta che ci forniscono la maggior parte dei commentatori economici borghesi è, secondo loro, rassicurante. La crescita dei prezzi, dicono, è causata in primo luogo dall’aumento del consumo di cibo da parte delle due maggiori potenze economiche emergenti, India e Cina. I cinesi, che nel 1980 mangiavano in media 20 chili di carne l’anno, ora ne mangiano 50. E siccome per un chilo di carne bovina, ne occorrono circa 8 di cereali, ecco spiegato in parte l’aumento dei prezzi. Una seconda causa, ci spiegano, è la siccità che negli ultimi due anni ha colpito l’Australia, uno dei maggiori produttori mondiali di cereali, determinando un forte calo nella produzione. Quindi, in conclusione, aumento della domanda, calo dell’offerta, crescita dei prezzi. Anche in questo caso, le sacre regole del mercato hanno fatto il loro corso, e quindi nessuno si può, né si deve lamentare.

In verità le cose stanno in un modo completamente differente. Cerchiamo di spiegarci.

Molteplici fonti, al di sopra di ogni sospetto, spiegano che allo stato attuale non vi è una carenza di cibo a livello mondiale. Un rapporto della Fao (agenzia dell’Onu per le questioni alimentari) ci informa che nel 2008 la produzione mondiale di cereali raggiungerà il record storico di 2164 milioni di tonnellate, e che quest’anno, dopo la siccità di cui sopra, la produzione australiana ricomincerà ad aumentare. Sempre la Fao, in un rapporto del 2002, affermava che la produzione mondiale di cibo sarebbe stata superiore in rapporto all’aumento della popolazione, e questo fino al 2030! (2). In un articolo del novembre 2003, Manlio Dinucci spiegava che negli ultimi decenni la produzione alimentare mondiale è cresciuta più rapidamente della popolazione, e che -sempre secondo dati Fao- questo sarebbe stato vero fino al 2010 (previsione poi corretta al 2030) (3).

Cerchiamo ora di comprendere come si è arrivati a questo punto.

 

Le vere ragioni per cui centinaia di milioni di persone sono ridotte alla fame. E chi ci guadagna

Le radici di questa situazione risalgono ai decenni scorsi, quando la politica criminale delle potenze imperialiste occidentali ha completamente distrutto l’economia e la stessa struttura sociale dei Paesi in via di sviluppo.

Per anni la politica dei sussidi agricoli seguita da Usa e Unione Europea, insieme ai diktat imposti da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale ai Paesi di Africa, Asia e America Latina, ha avuto come risultato un crollo verticale del prezzo dei prodotti agricoli nel periodo 1975/2005 e l'espulsione di milioni di contadini dalle loro terre, costringendoli ad ammassarsi in bidonville cresciute a fianco delle metropoli, senza la possibilità di trovare un impiego alternativo.

Tutto ciò, legato a un uso dissennato dei terreni, usati prevalentemente per monoculture intensive imposte dalle multinazionali, insieme a scelte economiche che hanno azzerato gli investimenti volti a conservare la capacità produttiva dei terreni, ha fatto sì che Paesi un tempo esportatori di cibo, nel giro di una generazione siano diventati importatori, costretti a pagare prezzi per loro insostenibili.

Chi sono i beneficiari di questa corsa dei prezzi dei generi alimentari?

Non i salariati agricoli, che seppure abbiano visto aumentati i loro stipendi, nella maggioranza dei casi sono anch’essi colpiti dall’agflation (inflazione dei prezzi agricoli). Come è il caso dei lavoratori agricoli del Bangladesh che, pur avendo raddoppiato i loro salari nell’ultimo anno, non hanno abbastanza entrate da sfamare le loro famiglie.

Non ne beneficiano i piccoli produttori, che non potendo speculare sugli aumenti dei loro prodotti (a causa degli alti costi di stoccaggio, o dell’aumento del prezzo dei carburanti e dei pesticidi) hanno dovuto vendere i loro raccolti ancor prima della mietitura (4).

I veri, grandi beneficiari di questa situazione che affama centinaia di milioni di persone sono le grandi imprese multinazionali dell’agro-business come Monsanto e Cargill (che nel 2007 hanno avuto profitti per oltre un miliardo di dollari), General Mills e altre (5):

Della partita sono anche i grandi speculatori internazionali dei fondi pensione, private equitày, hedge funds, che speculando sui contratti future delle materie prime, e hanno contribuito a causare lo spaventoso aumento dei prezzi che oggi stiamo vedendo, non solo per i beni alimentari (6).

 

La truffa dei biocarburanti

Facciamo qui una breve parentesi riguardo la truffa dei biocarburanti, altro fattore che ha scatenato la crisi attuale.

Per far fronte all’aumento del prezzo del greggio, e all’inquinamento causato dall’uso dei combustibili fossili per il trasporto, negli ultimi anni in Usa (ma anche in Europa), è iniziata una campagna a favore del bioetanolo. Si tratta, come dicevamo, di una truffa dalle dimensioni colossali, per due motivi.

Il primo perché, grazie a ingenti sussidi statali, una quota sempre maggiore di mais (nel 2008 il 30% della produzione Usa, che sono i primi produttori mondiali) sarà destinata alla produzione di questo “miracoloso” carburante, con le conseguenze che possiamo immaginare sull’alimentazione mondiale, se è vero che con un pieno di bioetanolo fatto a una macchina di grossa cilindrata, si utilizza una quantità di mais che servirebbe a sfamare una persona per un anno. Il secondo, che tutti gli studi dimostrano che si tratta di una tecnologia particolarmente energivora, nel senso che usa più energia di quella che produce. Con buona pace delle preoccupazioni “ambientaliste”.

 

Il colpevole non è il maggiordomo: è il capitalismo (in tutte le sue varianti)

Intere popolazioni muoiono letteralmente di fame, milioni di piccoli coltivatori sono ridotti sul lastrico e non riescono a vedere nessuna via di uscita dalla loro tragica situazione se non facendo scelte estreme (dal 95 al 2006 in India vi sono stati 200 mila suicidi tra i piccoli coltivatori), in un’epoca storica in cui il cibo non è mai stato così abbondante.

Sbaglierebbe comunque chi ritenesse che la situazione che stiamo vivendo sia in un certo senso un’aberrazione di un sistema economico, quello capitalista, sostanzialmente sano, e che al massimo necessiterebbe solo di qualche aggiustamento o variazione.

Lo stesso sviluppo abnorme della speculazione finanziaria globale che ha colpito le commodities (materie prime), è frutto della più generale crisi di valorizzazione del capitale.

Non riuscendo più a ottenere profitti sufficienti nell’attività produttiva normale, i capitalisti cercano di ovviare a questa situazione in altri modi.

All’inizio di questo secolo una via percorsa per tentare di aumentare i profitti è stata quella di investimenti massici in azioni di imprese attive nel settore delle Nuove Tecnologie. Una volta saturato questo ambito (scoppio della bolla di internet), si è trovata nella speculazione immobiliare una nuova gallina dalle uova d’oro. Ma col rialzo dei tassi di interesse a livello mondiale per spegnere i focolai di inflazione che si stavano creando, e con un’offerta non più sostenuta da un’adeguata domanda, anche questo settore è andato in crisi (crisi dei mutui sub prime). Oggi la presunta fonte di salvezza per i profitti dei capitalisti è legata alla speculazione sulle materie prime (cereali, petrolio, oro, rame ecc.) (7).

 

Le false soluzioni, interne al capitalismo

Assistiamo a vari tentativi per risolvere questo stato di cose.

Alcuni Paesi esportatori di generi alimentari hanno deciso di vietare le esportazioni di queste materie prime, per cercare di soddisfare la domanda interna e allo stesso tempo calmierare i prezzi. Quelli importatori stanno abbozzando una politica di sussidi sempre con l’intenzione di abbassare le tariffe dei generi alimentari di base. Siamo pronti a scommettere che né nel primo così come nel secondo caso, le soluzioni pensate saranno in grado di risolvere la crisi. I Paesi esportatori traggono appunto dal commercio internazionale una buona fetta delle entrate dei loro bilanci annuali. Dubitiamo che se ne vogliano privare per salvaguardare i livelli di vita degli strati più deboli delle popolazioni.

Aggiungiamo pure che i governi di queste nazioni hanno tra i loro maggiori sostenitori e sponsor i grandi latifondisti, che beneficiano di questa corsa al rialzo dei prezzi.

Le misure protezioniste rischiano di essere solo degli specchietti per allodole, e governi e grandi produttori di materie prime lavoreranno di comune accordo per aggirare i presunti ostacoli alle esportazioni. Per i Paesi importatori, non sarà possibile andare oltre temporanee misure tampone decise per placare la rabbia popolare (come in Egitto dopo le rivolte per il caro pane), se non vorranno correre il rischio di andare verso la certezza della bancarotta finanziaria.

Alcuni economisti cercano invece di proporre soluzioni alternative strutturali allo stato di cose presente, ma sempre all'interno di questo sistema sociale. Tra questi uno dei più autorevoli e onesti è Luciano Gallino.

In un articolo apparso sul quotidiano la Repubblica nelle scorse settimane, dopo avere correttamente analizzato lo sviluppo poderoso delle grandi multinazionali dell’agro business degli ultimi decenni, e aver correttamente affermato che il problema odierno non è la mancanza di cibo, ma la sua accessibilità per centinaia di milioni di persone, la sua proposta cade però in un utopistico, per quanto suggestivo, ritorno alla piccola produzione contadina.

E’ lecito nutrire più di una perplessità sul fatto che sia questa la risposta di cui oggi il mondo ha bisogno. In primo luogo, la tendenza storica secolare del capitalismo, non solo nell’industria, ma anche nell’agricoltura, è quella della concentrazione del capitale. Pensare che questa possa essere in qualche modo invertita, appare francamente molto complicato, anzi per la precisione impossibile.

Chi, a sostegno di questa ipotesi, ricorda alcune leggi contro le grandi concentrazioni monopoliste, approvate un po’ ovunque nei decenni scorsi, non spiega cosa in realtà esse abbiano prodotto. La legge che impose lo smembramento della Standard Oil di Rockefeller agli inizi del Novecento, non ha certo impedito il rinascere in poco tempo di grandi monopoli nel campo degli idrocarburi (le famose sette sorelle), e forse non tutti sanno che da una delle società nata dalla vecchia Standard Oil è nata la Exxon Mobil, gigante che ogni anno registra utili per decine di miliardi di dollari. Stessa sorte nel campo delle telecomunicazioni, quando la legge che impose lo smembramento dell’At & T, non è riuscita ad evitare la nascita di nuovi monopoli in uno dei settori chiave della moderna economia di mercato.

Proviamo comunque per un attimo a immaginare che tutto ciò che non è stato possibile per l’industria, il terziario e la finanza, sia possibile per l’agricoltura. Come potrebbero i piccoli produttori beneficiare delle innovazioni nell’uso della tecnica in agricoltura? Come potrebbero acquistare i moderni e costosi macchinari, le sementi, i pesticidi che servono oggi per aumentare la produzione dei campi coltivati? A quali condizioni questi piccoli produttori potrebbero accedere al credito, indispensabile per la loro attività, trovandosi di fronte a moloch della finanza che imporrebbero condizioni capestro per erogare loro i prestiti?

 

La soluzione dei rivoluzionari, contro il capitalismo

Nel Manifesto di Marx ed Engels si afferma che il capitalismo ha liberato enormi forze produttive, ha permesso all'umanità di fare un enorme balzo in avanti, creando le condizioni perché l’uomo, nei campi come nelle officine, possa liberarsi dalla schiavitù del lavoro. E noi dovremmo oggi sognare una società in cui il contadino continui a spezzarsi la schiena con una vanga o dietro un aratro (perché a ciò porterebbe inevitabilmente il ritorno all’agricoltura dei piccoli appezzamenti)? No, noi non lo crediamo.

Da oltre un secolo a questa parte la questione centrale è quella di un sistema economico in cui la produzione è nei fatti socializzata, ma la sua gestione è fatta nell’interesse di pochi capitalisti privati. Questa contraddizione non può né deve essere risolta portando indietro l’orologio della storia, a una società in cui la produzione è fatta solo per il soddisfacimento dei bisogni immediati di piccole comunità.

L'unica vera soluzione è rappresentata da uno stravolgimento rivoluzionario del sistema economico che domina a livello globale, in cui tutta la produzione in ogni campo, smettendo di essere governata dalla legge del profitto, liberi finalmente tutte le sue potenzialità, consentendo all’umanità di farla finita per sempre con fame, miseria e carestie.

Un sistema diretto dai lavoratori per i lavoratori, un sistema socialista in cui il fine ultimo non sia il profitto ma il benessere generale, non solo nelle parole ma nei fatti. Oggi più che mai questa prospettiva cessa di essere la speranza di un futuro lontano, per diventare l’impellente necessità di miliardi di persone. La fame che sta attanagliando i contadini del Bengala, così come gli operai dell’America meridionale oggi, e in un futuro non lontano quelli delle metropoli imperialiste, crea le condizioni per far sì che si crei quell’alleanza proletaria sui cui si costruiranno le fondamenta di un nuovo mondo.

La Lega Internazionale dei Lavoratori e le sue sezioni nazionali, impegnate nel IX congresso mondiale, lavorano incessantemente, con tutte le loro forze, per questo obiettivo.

 

Note

 

(1) Helga Zepp-La Rouche, Raddoppiamo la produzione di cibo www.womensnews.net.

(2) World agricolture 2030, Global Food production will exceed population growth www.fao.org.

(3) Manlio Dinucci, L’agricoltura e alimentazione da Il sistema globale (seconda edizione – Geografia del sistema globale, Zanichelli Editore).

(4) Roberta Carlini e Vittorio Malagutti, "Più che grano sembra oro", L’Espresso, 15 maggio 2008.

(5) Luciano Gallino, "Così l’Occidente produce la fame nel mondo", La Repubblica, 10 maggio 2008.

(6) Ibidem.

(7) Quanto pesi la speculazione finanziaria sull’aumento dei prezzi lo possiamo verificare da un fatto minore, ma significativo. Eugenio Occorsio su Affari e Finanze di lunedì 16 giugno racconta che nel 1956 il futuro presidente degli Usa Gerald Ford, all’epoca funzionario del Ministero dell’Agricoltura, riuscì a vietare la costruzione di contratti future sulle cipolle. Oggi è la sola materia prima che non sta salendo di prezzo!

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