Partito di Alternativa Comunista

LA BANCAROTTA DEL CAPITALISMO

 
LA BANCAROTTA DEL CAPITALISMO

 
di Alberto Madoglio
 
 
L’annuncio di domenica 7 settembre, fatto a mercati finanziari chiusi, col quale il segretario del tesoro statunitense, Paulson, ha comunicato la nazionalizzazione della Federal National Mortage Association e della Federal Home Loan Mortage Corporation, più note come Fannie Mae e Freddie Mac, indica una volta di più quanto la crisi dei mutui subprime, iniziata la scorsa estate, sia lontana dall’avere trovato una soluzione.
Il clamore che questa notizia ha creato in tutto il mondo è stato pari alla sua portata storica.
Si tratta, infatti, del maggiore salvataggio pubblico avvenuto negli Usa dai tempi della Grande Depressione, deciso per evitare un nuovo approfondirsi della crisi che sta colpendo i mercati mondiali da oltre un anno.

Come si è arrivati a questa decisione? Fannie e Freddie furono create rispettivamente nel 1938 e 1970 sotto le presidenze di Roosvelt e Nixon, con lo scopo di garantire i mutui accesi per acquistare le abitazioni negli Usa. Si tratta, meglio si trattava, di imprese private quotate in Borsa, ma sponsorizzate dal governo americano (Gse, Government Sponsored Enterprises).
Con lo scoppio della bolla immobiliare la loro situazione è diventata sempre più critica. Le loro quotazioni borsistiche sono arrivate a segnare una perdita del 90%, le obbligazioni da loro emesse sono state classificate dalle maggiori agenzie di rating alla stregua di titoli spazzatura.
In questa situazione, tenendo conto che i titoli da loro emessi sono nei portafogli delle maggiori istituzioni finanziarie mondiali (banche centrali, istituti di credito, fondi sovrani, fondi pensioni), i rischi che un loro fallimento potesse trasformasi in un crollo generalizzato a livello mondiale hanno spinto l’amministrazione Bush a prendere questa decisione.

Per dare un’idea di ciò di cui si parla: queste due istituzioni finanziarie garantiscono circa il 50% dei mutui in essere negli Usa, per una cifra di oltre 5000 (cinquemila) miliardi di dollari, tre volte il prodotto interno lordo di una potenza imperialista come l’Italia, a fronte di un capitale versato di ottanta miliardi di dollari, poco più di un centesimo degli impegni presi!

Fannie e Freddie non sono semplici vittime di una crisi creata da altri, ma si può affermare che sono state carnefici di sé stesse. In un articolo apparso sull’Economist lo scorso ottobre (1) si annunciavano i disastri che la nuova gestione delle due imprese avrebbe creato. La scelta di trattare singoli mutui per un importo superiore a quanto fino allora consentito, le avrebbe fatte entrare in un settore (cosiddetti mutui Jumbo) i cui tassi stavano in quel momento aumentando. Il rischio che l’autorevole settimanale paventava era che in realtà si continuasse a favorire quel processo di rifinanziamento dei mutui attraverso il quale negli ultimi anni le abitazioni Usa si sono trasformate in veri e propri bancomat (2).
Un secondo pericolo che si segnalava era legato alla possibilità di concedere direttamente mutui. Se l’operazione da un punto di vista teorico poteva apparire irreprensibile (si guadagna di più concedendo un mutuo che non garantendolo), nei fatti era un azzardo assolutamente irresponsabile. Infatti, così facendo, il rischio assunto non era legato solo alla somma prestata, ma anche agli interessi da ricevere e dalle rate di preammortamento del mutuo. E questo in un periodo in cui la bolla immobiliare era scoppiata da due mesi.

Nate con lo scopo di calmierare un mercato importante per milioni di cittadini americani, sono così diventate artefici di una speculazione che alla fine le ha travolte.
L’euforia con cui le borse hanno salutato la decisione di Washington è durata poco. Il giorno dopo Paulson ha ammesso di non sapere quanto costerà alle casse statali l’intervento deciso. Si parla di una cifra tra i 30 e i 300 miliardi di dollari.
Inoltre la nazionalizzazione non ha risolto i problemi, ma ha fatto diventare direttamente responsabile il bilancio statale delle altre perdite future.
Quanti dei 5000 miliardi garantiti potranno venire in realtà riscossi, tenuto conto che milioni di americani, non potendo onorare i loro debiti, si sono visti pignorare le case dalle banche? Che cifra incasseranno queste ultime quando nelle prossime settimane milioni di abitazioni saranno messe all’asta, in un mercato da mesi ormai saturo, e che per la prima volta dal dopoguerra ha visto calare il valore reale degli immobili?
Lungi da noi vaticinare l’imminenza di catastrofi economiche definitive (previste e attese da decenni da molti pseudomarxisti), ma il futuro non si presenta roseo per il capitalismo. Molte nubi si addensano all’orizzonte.

Le tre Big di Detroit, GM Ford e Chrysler, reclamano aiuti statali per cinquanta miliardi di dollari, per evitare quella bancarotta che ormai molti ritengono inevitabile. Lehman Brothers, gloriosa banca d’affari a stelle e strisce, ha in queste ore dichiarato bancarotta, denunciando perdite potenziali di oltre 600 miliardi di dollari.
Tutti invocano aiuti statali. Opzione complicata. Il bilancio federale segna ormai un passivo di oltre il 5% annuo, che non permetterebbe agli Usa di centrare i parametri di Maastricht.
La Federal Reserve ha in questi mesi fornito ingenti somme di liquidità al settore del credito, accentando però in garanzia titoli di dubbia solvibilità. Proseguire su questa strada sarebbe forse possibile per una potenza in grado di dominare in maniera incontrastata il resto del mondo, sia dal punto di vista economico che militare. Ma così non è. La sconfitta della Georgia, alleato di ferro degli Usa nel Caucaso, nella guerra lampo di agosto contro la Russia, è stata una prova ulteriore del declino inesorabile della super potenza americana.

I capitalisti non possono sperare nemmeno in una ripresa dell’economia a livello mondiale.
L’Europa è già in recessione, l’India rischia di entrarci già da quest’anno, e la stessa Cina, che nel 2008 crescerà dell’8% (segnando comunque una brusca frenata rispetto al quasi + 11 fatto segnare lo scorso anno), è , a detta di molti osservatori, la prossima vittima dello scoppio della bolla immobiliare, visto il crollo delle vendite e dei valori delle abitazioni fatto segnare ad agosto nell’impero di mezzo. Nessuno parla ormai più di decoupling (3).

Che previsioni si possono fare?
O la classe operaia internazionale riuscirà a dotarsi di una direzione politica che le permetta di farla finita una volta per sempre col sistema di produzione capitalistico, o il capitalismo costringerà l’umanità a fare i conti con un futuro di crisi economiche sempre più devastanti, guerre in cui le varie potenze (consolidate ed emergenti) cercheranno di sopravvivere a scapito delle altre, carestie che creeranno altri milioni di disperati.
O la barbarie capitalista o il socialismo. Questo è ancora una volta il dilemma cui si deve dare soluzione ed è il motivo per cui come Pdac lottiamo non solo per costruire un partito comunista in Italia ma, insieme alle altre sezioni della Lega Internazionale dei Lavoratori, siamo impegnati nella costruzione di un partito comunista mondiale, la Quarta Internazionale.
 
 
Note
(1)  "Don’t free Fannie and Freddie" – The Economist print edition, 4 ottobre 2007.
(2) Nel corso degli ultimi anni, la crescita dei consumi americani è stata sostenuta da un sistema perverso. Più il valore delle case aumentava, e più i mutuatari ottenevano dalle banche nuove somme in prestito. Questo meccanismo, favorito dai bassi tassi di interesse, ha contribuito allo sviluppo della speculazione immobiliare.
(3) Decoupling (disaccoppiamento) è la teoria in voga negli ultimi tempi, secondo la quale le economie dei maggiori Paesi in via di sviluppo (il cosiddetto Bric: Brasile, Russia, India e Cina), sarebbero oramai in grado di crescere indipendentemente dalle tendenze recessive presenti nei Paesi imperialisti.

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