La situazione politica
e la battaglia dei rivoluzionari
Risoluzione del Consiglio Nazionale Pdac, 8-9 giugno 2013
A circa quattro mesi dalle elezioni politiche, dopo essere rimasta impantanata in una crisi profondissima (che ha addirittura messo in luce un parziale vuoto di potere nel momento in cui, terminato il mandato presidenziale di Napolitano, non si riusciva a formare il nuovo esecutivo), la borghesia italiana sembra, almeno temporaneamente, aver raggiunto la quadra con il governo a larghe intese di Letta (illustre esponente dei più importanti circoli finanziari internazionali, incluso il Club Bilderberg e la Trilateral Commission) sostenuto dal Pdl e dal Pd, oltre che da Scelta Civica di Monti. Questa relativa stabilità istituzionale non deve però creare illusioni: le soluzioni equilibriste della borghesia nostrana tentano di occultarne l’evidente debolezza e fragilità nel governare gli i propri affari. Le invettive di Confindustria ne sono una dimostrazione. E così pure il quadro macroeconomico: aziende che chiudono, potenziale manifatturiero distrutto del 20%, disoccupazione oltre il 12% (al netto dei cassintegrati) e quella giovanile che supera il 40%.
Governo Letta: la continuità con il governo Monti
La
caratteristica più evidente e scontata che balza subito agli occhi di chi
osserva il nuovo governo Letta è la continuità assoluta con le politiche
economiche e del lavoro del precedente gabinetto montiano. Già nel famoso
discorso inaugurale, Enrico Letta aveva posto come obiettivo quello di ridurre
il debito (cosa che nella lingua metaforica della classe dominante significa
continuare a tagliare le spese sociali e ad aumentare il peso fiscale sui
lavoratori e le lavoratrici). Oltre chiaramente a favorire il superamento delle
“restrizioni ai contratti a termine” (dunque intensificare la precarizzazione
del lavoro e smantellare definitivamente il contratto a tempo indeterminato.
Tutto questo in direzione degli appelli accalorati rivolti dal potentato confindustriale.
Il governo Letta, insomma, si muove entro i binari indicati dalla Banca
centrale europea e dalla Commissione europea: i binari dell’austerità e
dell’attacco ai diritti e alle condizioni del proletariato italiano. Senza
considerare che oltre al famigerato Fiscal Compact, alla fine dello scorso mese
si è aggiunta un’ulteriore drammatica novità, il nuovo strumento di controllo
della Troika denominato Two Pack: a partire dal 2014, è infatti previsto che il
15 ottobre di ogni anno i 17 stati membri dell’Unione presentino alla
Commissione il loro budget per l’anno successivo e, a differenza delle ormai
famose “raccomandazioni” degli anni passati, Bruxelles potrà mettere mano, fino
eventualmente a porre il veto, direttamente sui bilanci nazionali di quei Paesi
che si discostano dagli obblighi del Patto di stabilità: con la possibilità
inoltre di emettere sanzioni verso chi non volesse adeguarsi.
La
seconda via imboccata dal neonato governo, nel tentativo di trovare
surrettiziamente una scorciatoia per uscire dalla propria crisi, è quella del
cosiddetto “presidenzialismo”: si tratta di un percorso di modifica della carta
costituzionale in direzione del modello francese, con elezione diretta del
presidente della repubblica, rafforzamento dell’esecutivo a scapito del
parlamento e assunzione di forti connotati bonapartisti, una soluzione più
volte ricercata dalle classi dominanti soprattutto in periodi di crisi e
tensioni sociali, in cui l’idea di un “uomo forte” si fa strada nelle
aspirazioni della borghesia, intenzionata a garantire stabilità sociale e a
procedere al massacro sociale più facilmente e senza ostacoli. Siamo, in
pratica, di fronte al processo di costituzionalizzazione di un progetto sin qui
già messo in atto, nei fatti, da Giorgio Napolitano.
Sia
chiaro: la repubblica parlamentare come si è avuta fino ad oggi, garantita
dalla Costituzione, non è mai stata nell’interesse delle masse popolari e non
ha mai rappresentato un ostacolo per gli interessi delle classi dominanti,
quanto invece l’inquadramento istituzionale atto a garantire la conservazione
dell’ordine stabilito. La svolta presidenzialista non segna dunque il passaggio
da una “democrazia” a una “dittatura” come più volte sottolineato dalla
sinistra socialdemocratica affetta dalle simpatie costituzionali, bensì un modo
per rendere più forte, a tinte bonapartiste, un sistema già indirizzato
nell’interesse della classe dominante contro le classi lavoratrici.
La
netta continuità con il disegno reazionario e antipopolare del governo
precedente si è tradotta, nelle elezioni amministrative del 26 e 27 maggio, in
una fortissima crescita del tasso di astensione che ha raggiunto picchi
storici. Alle urne si è espresso solo il 62% dell’elettorato, segno della
sempre più crescente disillusione delle masse popolari rispetto alle
istituzioni e alla politica borghese, fatta di promesse mai mantenute, guerre
sociali e attacchi a diritti e lavoro.
I Cinque stelle al bivio: la realtà dei fatti contro la realtà di Internet
Ma
la forza politica indubbiamente più punita alle ultime elezioni amministrative
è stata il Movimento Cinque Stelle di Grillo e Casaleggio, la sorpresa invece
della precedente consultazione politica. Il M5S perde quasi la metà dei voti
guadagnati a febbraio e non riesce a mandare nessuno dei propri candidati ai
ballottaggi nei capoluoghi. Gli ultimi sondaggi lo danno ai minimi dalle
politiche: precisamente viene stimato in media al 20,8% di consenso, oscillando
dal 19,1 segnalato da Swg (nel sondaggio realizzato il 28-29 maggio da Agorà)
al 22,7% indicato dal sito Scenari Politici (interviste web effettuate in
proprio nel periodo 27-31 maggio). Quattro rivelazioni su otto segnalano il
“partito” di Grillo sotto il 20% di consenso.
Questo
calo è spiegabile in diversi modi: sicuramente, conta il fatto che dopo quasi
quattro mesi in parlamento la “rivoluzione” promessa non è arrivata. In cambio,
i grillini si sono scannati per entrare nelle commissioni bicamerali, ottenendo
alla fine la presidenza della Vigilanza Rai. Insomma, i Cinque Stelle si stanno
rivelando agli occhi di alcuni settori del loro elettorato per quello che hanno
sempre giurato di combattere: dei politici professionisti borghesi in cerca di
poltrone e spazi dentro le istituzioni. Se, all’inizio, i parlamentari Cinque
stelle avevano intrapreso un percorso comune, seppure contingente, con l’ala
socialdemocratica di Sel, e con l’operazione Rodotà durante le elezioni del
presidente della repubblica avevano spiazzato tutta la sinistra egemonizzando
l’opinione pubblica storicamente riformista, Grillo si è voluto subito levare
di dosso le apparenze “sinistrorse”, prima riaffermando il principio dello ius
sanguinis, e opponendosi perciò alla concessione della cittadinanza
italiana per i figli degli immigrati; poi si è smarcato dallo stesso Rodotà.
Rimane dunque la connotazione essenzialmente reazionaria del progetto politico
a Cinque stelle, un progetto populista e razzista che si appoggia sulle
aspirazioni di una parte delle classi medie e della piccola borghesia
traumatizzata dalla progressiva proletarizzazione innescata dalla crisi
economica.
In
ogni caso, al momento non appare possibile delineare le prospettive future per
il grillismo, visto anche il netto calo di consensi: potrebbe darsi che il
blocco sociale e politico di riferimento si consolidi definitivamente, sancendo
il Movimento come forza stabile del panorama politico italiano; così come
potrebbe anche verificarsi che l’onda del successo di febbraio si dissolva in
un nulla di fatto (o si ridimensioni notevolmente) facendo rientrare il
fenomeno come se nulla fosse stato (e come già molte volte è accaduto per altri
partiti e movimenti nella storia politica italiana).
Quel che resta della socialdemocrazia e del centrismo
Sul
fronte propriamente di sinistra, abbiamo innanzitutto il modesto, ma
significativo, aumento di consensi avuto da Sel di Vendola alle ultime
amministrative: si conferma dunque come l’unico progetto socialdemocratico che
riesce ancora, se non a incidere, comunque a rimanere nell’orizzonte
istituzionale e della politica (borghese). Poca cosa, beninteso, rispetto alle
aspettative di Vendola di costruire un forte polo di sinistra con alcuni pezzi
del Pd (Barca e Fassina) e con la Fiom di Landini.
L’esito
negativo dell’assemblea dello scorso 11 maggio, con cui si sarebbe dovuto
inaugurare questo possibile progetto, ha intaccato le speranze vendoliane:
Fassina e Barca sono rimasti nel Pd, mentre Landini non si è presentato,
limitandosi a un saluto. Gli unici ancora interessati al progetto paiono essere
solamente i rottami della corrente di Grassi in Rifondazione comunista.
Nel
Prc è partito già da febbraio il “si salvi chi può”, che si è fatto ancora più
forsennato con la sconfitta alle amministrative (la media di Rifondazione in
tutti i capoluoghi e circa dell’1%): mentre la destra grassiana aspetterà
probabilmente il congresso di fine anno per staccarsi definitivamente dalla
falce e martello riformista, Ferrero e i suoi sono in alto mare. Significativa
la partecipazione dei colonnelli ferreriani all’assemblea costituente di Ross@
– Per un movimento anticapitalista e libertario, tenutasi a Bologna sempre lo
scorso 11 maggio. Si tratta, in realtà, dell’ennesimo tentativo di rilanciare,
dopo il fallimento del Comitato No Debito, un carrozzone riformista ad opera di
Giorgio Cremaschi, con la partecipazione, in vero poco numerosa, di numerosi
relitti della sinistra socialdemocratica e centrista: dai ferreriani di
Rifondazione agli stalinisti di Rete dei Comunisti, passando per la metà di
Sinistra Critica, quella di Turigliatto.
Sinistra
Critica, infatti, conferma la violenta crisi che sta vivendo, a seguito della
quale si è divisa in due frazioni pubbliche autonome: una capeggiata, per
l’appunto, da Turigliatto e animata da posizioni più vicine al centrismo
“ortodosso”, con i tradizionali riferimenti al movimento operaio; un’altra
animata dal movimentismo vicino ai centri sociali e contrario ad ogni forma
“partitica”.
Anche
l’altra forza centrista, il Partito comunista dei lavoratori, nuota in acque di
crisi: dalla perdita di numerose sezioni (in Sicilia e Calabria, a cui si
aggiungono le sezioni di Parma e di Lodi), dovuta alla logica menscevica del
partito “leggero”, ai pessimi risultati elettorali (per una forza che fa delle
presentazioni elettorali la sua principale meta politica), il partito di
Ferrando si conferma per quello che è sempre stato: un partito completamente
alieno da ogni forma di centralismo, ibrido nelle posizioni e governato in modo
verticistico da un leader guru che insegue le telecamere. Peraltro, riesce
difficile, per la direzione del Pcl, spiegare ai propri iscritti come mai un
partito così centrato sulla partecipazione elettorale non si sia candidato alle
recenti amministrative. E, sicuramente, ancor più difficile giustificare
l’appoggio “critico” dato a Roma alla lista socialdemocratica capeggiata da
Sandro Medici.
Il Pdac e la sua costruzione
Il
nostro era l’unico partito a sinistra di Rifondazione presente in qualche città
con proprie liste in queste elezioni. Il risultato numerico, minimo, è nella
media dei consueti risultati dell’estrema sinistra in questi anni: lo zero
virgola qualcosa (con una punta dello 0,6 a Barletta). Ma come sempre, per
quanto ci riguarda, misureremo il risultato non con l’aritmetica delle elezioni
borghesi ma in termini di nuovi contatti e nuovi iscritti al partito guadagnati
grazie alla propaganda attorno a un programma rivoluzionario (l’unico programma
dalla parte degli operai che si è visto in questa competizione), come sempre
per noi scopo unico della presentazione alle elezioni. Presentazione che
abbiamo fatto coniugandola con la nostra attività principale: e cioè con la
presenza costante nelle principali lotte che, per quanto oggettivamente poco
numerose e isolate, si stanno sviluppando in varie regioni d’Italia e in cui
sono presenti militanti del Pdac.
Proprio
perché, come ripetiamo da sempre, non è dalle urne che possono uscire soluzioni
per i lavoratori, l'unica soluzione sta nel rafforzare ed estendere le lotte
che, pure ancora embrionali, attraversano il nostro Paese, unirle,
organizzarle, svilupparle, prendendo esempio da quanto succede in altre parti
d'Europa. Constatiamo infatti che i recenti fallimenti del padronato
industriale hanno favorito la diffusione, tra alcune fasce della classe
operaia, di parole d'ordine prima totalmente ignorate o non prese in
considerazione, come la rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo
(ne è un esempio il caso Ilva, per il quale ormai la nazionalizzazione, seppure
in forma borghese, è ormai diventata una rivendicazione comune, o gli operai
della Om Carrelli di Bari, che diretti dai militanti del Pdac, pongono
apertamente la questione della gestione operaia). Questo porta a guardare con
altri occhi la stessa carta costituzionale da parte di un sempre maggior numero
di lavoratori, nella misura in cui la Costituzione è un bastione a difesa del
sistema capitalista.
In
questo senso, l’asse della politica del Pdac, in continuità con la risoluzione
del Cn dello scorso mese di marzo, dovrà essere ancor più centrata, tra gli
altri settori, sul lavoro con i lavoratori della logistica – che rappresentano
oggi l’esempio della lotta più avanzata e radicale che si stia dando in Italia
– e con gli immigrati in lotta, così come sull’ulteriore sviluppo della costruzione
del Coordinamento No Austerity, a cui partecipiamo convintamente, insieme a
molte altre realtà di lotta e a decine di attivisti, e che, pur essendo ancora
un progetto embrionale, rappresenta già oggi un primo importantissimo
tentativo di unificare alcune tra le più importanti e radicali lotte e
mobilitazioni di vari territori, non solo sul piano nazionale ma anche su
quello internazionale, facendo parte a pieno titolo dell’importante esperienza
della Rete Sindacale internazionale, nata a Parigi sul finire dello scorso mese
di marzo.
Riconfermiamo
– soprattutto in questa fase e soprattutto di fronte ai tentativi di
ricomporre, a partire dalla probabile esplosione di Rifondazione, una sinistra
socialdemocratica che proponga ai lavoratori altre scorciatoie riformiste – le
linee di indirizzo della risoluzione politica del Consiglio nazionale del 9‑ 10
marzo per l’individuazione di una piattaforma e di un programma che costituisca
un’autentica soluzione operaia alla crisi: una piattaforma e un programma che pongano
esplicitamente la prospettiva del potere della classe operaia.