Crisi economica
L’UNICA NOVITA’ E’ CHE LA CRISI CONTINUA
di Alberto Madoglio
Il
passare dei mesi ci fornisce la dimostrazione che la grande Recessione è ben
lungi dall’essere terminata.
Vero
che il suo andamento non è lineare. Ci sono momenti in cui le contraddizioni
che continuano ad accumularsi sembrano sul punto di esplodere causando effetti
che non si possono nemmeno immaginare: così ad esempio è stato lo scorso maggio
quando sembrava che la costruzione europea fondata sull’euro fosse sul punto di
crollare.
In altri momenti sembra che l’economia abbia infine ripreso la sua corsa verso una “prosperità senza fine” e alla portata di tutti. Ma si tratta di fuochi di paglia, perché puntualmente altri indicatori economici dimostrano quanto la luce in fondo al tunnel sia di là da vedersi.
STATI UNITI E EUROPA: UN DECLINO SENZA FINE
Stati
Uniti e Europa confermano di essere i due malati più gravi.
I
dati di inizio 2010 che, per gli USA, sembrava prospettare una forte ripresa
economica e una rapida uscita dalla crisi, avevano fatto gridare al miracolo.
Tutti i maggiori esperti di economia si erano prodigati a magnificare le doti del
sistema economico americano che, per l’ennesima volta, aveva dimostrato la
propria capacità di superare i momenti bui.
Passata
l’estate, la realtà ha duramente smorzato questi facili entusiasmi: i dati
sulla disoccupazione, ufficialmente al 9% ma in realtà quasi al 16%, sul calo
dei consumi delle famiglie e degli investimenti produttivi in beni strumentali
(cioè quegli investimenti che le aziende fanno quando prevedono che le
prospettive di crescita siano reali) hanno gelato i facili entusiasmi. Per non
parlare del mercato immobiliare: i prezzi delle case continuano a crollare, le
banche hanno ripreso a utilizzare, sotto altre forme, i mutui subprime, e ultimamente è scoppiato lo
scandalo di decine di migliaia di pignoramenti di immobili fatti per errore che
hanno ridotto in miseria un enorme numero di cittadini statunitensi.
In
Europa le cose vanno addirittura peggio. Qui segnali circa una veloce uscita
dalle secche della crisi non ce n’erano mai stati, ma nelle ultime settimane il
quadro è ulteriormente peggiorato.
E
non tanto perché sono ritornate a circolare voci sul probabile default di uno degli Stati membri dell’euro
(oggi è la volta dell’Irlanda che a causa di un intervento per salvare il
proprio sistema creditizio, vedrà il deficit del 2010 superare il 30% del Pil),
ma perché le notizie sullo stato dell’economia continentale sono ancora completamente
negativi.
Nel
suo ultimo rapporto mensile la Banca
Centrale Europea evidenziava il rischio di una pesante
ricaduta nella recessione, a causa del ritardo con cui sta avvenendo la ripresa
industriale. Ma se per Italia e Spagna, i due Paesi maggiormente indeboliti
dalla tempesta finanziaria mondiale, i dati sono molto pesanti ma per un certo
senso attesi, diverso è il discorso che si fa per la Germania.
Quella
che per anni è stata la locomotiva dell’economia europea e che oggi, insieme
alla Cina, dovrebbe farsi carico di un rilancio della crescita su scala
planetaria, si trova in uno stato tutt’altro che florido.
Secondo gli euroburocrati di Francoforte, il livello di utilizzo della capacità produttiva degli impianti tedeschi è ancora di un terzo inferiore a quello del 2007, prima dell’inizio della crisi, livello che comunque scontava un mancato utilizzo degli impianti di circa il 20%.
ECONOMIE IN VIA DI SVILUPPO: TRA MITO E REALTA’
Giudizio
simile va dato per i Paesi emergenti. Vero che lì l’economia cresce (Cina,
India e Brasile paiono essere state solo sfiorate dalla crisi), ma in che modo?
Per quei Paesi si prevede l’insorgere di un rischio “bolla speculativa”, nel
senso che la crescita è in larga parte dovuta alla speculazione (immobiliare,
di borsa, creditizia, sulle materie prime, ecc.) più che a uno sviluppo
“armonioso”.
Si
aggiunga che le condizioni di vita e i salari di quella enorme massa di
proletari, rimangono a livelli infimi per poter immaginare che queste economie
facciano da traino, nel prossimo futuro, alla crescita mondiale.
Inoltre
uno studio recente, commissionato dal Wto, dimostra che nei settori a maggior
investimento tecnologico, il valore aggiunto (non in senso marxista) dalla
produzione effettuata dalle economie emergenti è inversamente proporzionale al
livello di sviluppo scientifico che queste produzioni richiedono. In altre
parole non solo la Cina
e l’India ma anche la Corea
del Sud e Taiwan, sono meno tecnologicamente avanzate nell’organizzazione del
lavoro di quanto appaiano da una analisi superficiale: il cammino per una loro
emancipazione nei confronti delle maggiori economie imperialiste è lungi
dall’essersi compiuto, anzi è solo abbozzato.
LA NAVE AFFONDA: SI SALVI CHI PUO’
In
questo mare in tempesta, le differenti nazioni in campo si muovono senza il
benché minimo coordinamento. La stessa guerra delle valute ne è una prova. Per
cercare di far pagare la crisi ai capitalisti degli altri Paesi (oltre che ai
propri lavoratori), la borghesia americana ha intrapreso una politica volta ad
indebolire il dollaro, per tentare di rendere più competitive le sue merci sul
mercato mondiale. Ma una simile politica è fatta dalla Cina, che tiene
artificialmente basso il valore della divisa nazionale, così come dal Giappone.
Al momento l’Europa non insegue questa politica, ma solo perché al suo interno
è divisa tra chi (Italia e Francia ad esempio) avrebbe da guadagnare da una
svalutazione dell’euro, e chi (Germania) pensa di sopperire con una maggiore
produttività del lavoro, essendo più attenta a politiche fiscali “rigoriste”
(bassa inflazione e bilanci statali in ordine).
Questa
sorta di guerra di tutti contro tutti prova che, al di là della propaganda, gli
interessi dei vari attori in campo sono assolutamente inconciliabili tra loro,
e che il sistema capitalistico è intrinsecamente anarchico.
Solo
su un versante i vari capitalisti concordano: che la crisi la debbano pagare le
classi popolari (anche se a ben vedere in alcune situazioni la grande borghesia
è inflessibile verso i suoi lavoratori, ma più “accondiscendente” verso quelli
di altri Paesi, visti come potenziali acquirenti delle loro merci). Italia,
Francia, Spagna e da ultimo Inghilterra hanno varato durissime politiche di
austerità fatte di tagli allo stato sociale, aumento delle imposte, riduzione
delle pensioni e così via.
LA CLASSE OPERAIA INTERNAZIONALE: ECCO IL COMANDANTE CHE PUO’ PORTARE LA NAVE IN PORTO.
Tutto
questo origina due effetti.
Da
un lato si fanno manovre recessive che renderanno più lunga la stagnazione, o
meglio la crisi dell’economia.
Dall’altro
si producono una serie di esplosioni sociali che, se pur con differenti livelli
di intensità, stanno mettendo a dura prova i governi e le classi dominanti di
quei Paesi.
Dalla
Grecia alla Spagna fino alla Francia (ma anche l'Italia sta conoscendo una
nuova stagione di lotte), milioni di giovani, operai, disoccupati, si stanno
ribellando, rifiutandosi di subire un destino che molti vorrebbero fosse
ineluttabile.
La
sfida è ancora in corso, nel prossimo futuro assisteremo senz’altro a nuovi e
più profondi sconvolgimenti, ma è chiaro fin da ora che solo i lavoratori hanno
la forza e la possibilità di fornire la soluzione alla situazione attuale,
lottando per una società in cui non sia il profitto a decretare le sorti di
centinaia di milioni di persone, in altre parole lottando per il socialismo.