No al debito, no
alla Troika! Per un’Europa socialista!
Il senso di una
battaglia
internazionalista
anche in queste
elezioni
di Adriano Lotito
(candidato premier del
Pdac)
Spesso le differenze tra i programmi,
tra differenti proposte politiche, sono sottili, difficili da percepire per la
stragrande maggioranza dell’elettorato. Soprattutto a sinistra. E così nascono
gli equivoci, le accuse di chi ci affibbia un carattere di autoreferenzialità
identitaria, settarismo, feticismo della distinzione. Quasi che la nostra
presenza a queste elezioni, alla sinistra di Ingroia e dei questurini
socialdemocratici, possa ridursi a una ossessione identitaria, alla volontà di
andare da soli per principio, per partito preso appunto. Le cose non sono così
semplici e facilmente riducibili.
Innanzitutto, l’indipendenza di classe dalle
coalizioni borghesi è un principio che noi riteniamo universalmente valido, ma
non perché conforme ad un testo sacro, bensì perché corroborato da secoli e
secoli di esperienza storica. Per questo non può che farci sorridere il Vendola
di turno che ci spiega come farà a “spostare a sinistra” (quante volte l’abbiamo
sentita questa espressione?) il Partito democratico-montiano. Tutte le
collaborazioni di classe sperimentate nei secoli (precisamente dalla
partecipazione del socialista Blanc al governo Lamartine nel 1848) non sono
servite a fare pressioni operaie sui governi borghesi, ma solamente a
imborghesire le direzioni stesse del movimento operaio e a frenarne la
combattività. Per quanto riguarda Ingroia, invece, aldilà della composizione
delle liste e del programma compatibilissimo con l’ordine esistente (la
promozione della libertà imprenditoriale pare uno slogan reaganiano), c’è un
punto fortemente contraddittorio, ed è il rapporto con l’Unione europea e le sue
istituzioni sovranazionali. Ed è proprio questo il punto che meglio ci
contraddistingue (dal punto di vista concretamente programmatico) rispetto a
questi rigurgiti della sinistra riformista italiana (da Vendola a Ferrero). Il
primo punto dice: no al Fiscal Compact. Qui si apre un’ambivalenza incolmabile
che spezza le gambe al progetto “rivoluzionario-civile” dei questurini
socialdemocratici.
No al
Fiscal compact… sì alla Troika! (?)
Questo dilemma si mette a
nudo presto: come si può rifiutare il Fiscal compact (una misura votata da tutti
i Paesi membri della zona euro e che prevede una manovra annua di 50 miliardi
per i prossimi vent’anni) senza allo stesso tempo rompere con il sistema che ne
è l’espressione (ovvero Ue, Bce, Fmi)? Nel momento in cui si avanza una
proposta, se si vuole andare aldilà della mera retorica acchiappa-consensi della
pubblicità elettorale, bisogna pesare con cura e responsabilità ciò che si dice.
Ebbene Ingroia questo non lo fa: il suo “andar contro” il debito dei banchieri,
è un movimento fittizio, puramente elettorale. Lo dimostra appunto il suo non
voler andare contro il sistema che esprime questo debito, e che lo scarica sulle
masse lavoratrici. Insomma, la stessa ambiguità che ad esempio ha caratterizzato
Syriza in Grecia (che non a caso è il modello da seguire secondo Ferrero).
E’ un assurdo, un vero e proprio paradosso
ingannatore. Nel momento in cui ci si rifiuta di pagare il debito delle banche,
per coloro che intendono realmente seguire questa strada è inevitabile che si
debba rompere con l’Unione europea e i suoi istituti finanziari. Anche a
prescindere dall’analisi classista, il buon senso basterebbe per far comprendere
come l’Ue e la Bce vivano, come ogni usuraio di mestiere, dei pagamenti dei
debitori: le banche, in particolare quelle tedesche e francesi, gonfiano le
bolle per occultare il ristagno dell’economia reale e per valorizzare il
capitale in eccedenza; nel momento in cui le bolle scoppiano quelle stesse
banche rischiano il fallimento; secondo la prassi ormai comune del privatizzare
gli utili e socializzare le perdite (cosa perfettamente naturale in un sistema
basato sui grandi interessi privati). Gli Stati, e anche quello italiano, si
sono accollati il debito delle banche o mediante l’iniezione diretta di
finanziamenti pubblici o mediante il mercato dei titoli (sempre a vantaggio
delle banche) i cui tassi di interesse sono vertiginosamente aumentati. Dunque
si capisce come il meccanismo del debito sia una condizione indispensabile per
la sopravvivenza stessa delle banche e del sistema capitalista; nel momento in
cui lo si rifiuta, bisogna rifiutare ciò che ne costituisce la base. Questo non
rientra minimamente nelle intenzioni “europeiste” della coalizione ingroiana. Il
loro scopo (e anche quello di tutta la sinistra riformista europea, Syriza in
testa, ma anche Front de Gauche in Francia et similia) è riformare
le istituzione europee. Quante volte abbiamo sentito parlare di “Europa
sociale” o “Europa dei popoli” o altre espressioni a effetto ma vuote di
significato? Anche i vecchi cinque punti posti da Cremaschi alla base del
(defunto o resuscitato?) Comitato No Debito erano annaffiati da questo sano
europeismo “sociale”. Fumo negli occhi! Anche qui basta ricorrere ad un buon
libro di storia per sapere che l’Unione europea è nata da e per gli interessi
del capitale (dai Trattati di Roma a quello di Maastricht la manfrina è sempre
stata la stessa: libera circolazione delle merci e del capitale!). La ragion
d’essere dell’Ue e delle sue istituzioni sovranazionali (Bce ecc.) non si può
riformare: sarebbe come voler trasformare la Nato in un’associazione di
beneficienza! E infatti... neppure con la Nato i “rivoluzionari civili”
intendono rompere!
L’indiscreto fascino del nazionalismo: Grillo e l’estrema
destra
Alternativa Comunista si è sempre schierata contro
l’Unione europea e i suoi governi, per la rottura netta e senza possibilità di
compromessi con questo assetto europeista, costruito e sviluppatosi a immagine e
somiglianza degli interessi del capitale e contro la classe lavoratrice
dell’intero continente. Le classi lavoratrici non devono pagare il debito delle
banche, bisogna uscire dall’Ue, disdire tutti i trattati firmati nell’ultimo
mezzo secolo!
Eppure non basta nemmeno questo. Difatti non
siamo gli unici a urlare questo slogan nelle piazze. Il grave danno prodotto
dall’europeismo filoliberista della sinistra riformista è stato anche quello di
lasciare la battaglia contro l’Ue e i suoi bracci finanziari all’estrema destra
e al populismo nazionalista. E queste forze oscurantiste e retrive hanno colto
la palla al balzo. Non solo Alba dorata in Grecia (che vede aumentare
spaventosamente i suoi consensi) ma anche in Italia si sta facendo strada il
discorso anti-europeo in salsa nazionalista: ritornare alla lira, sovranità
monetaria, protezionismo, no all’immigrazione. Tutte parole d’ordine che sono al
centro dei programmi elettorali di Forza nuova e Casa Pound, ma che al momento
trovano come catalizzatore principale il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo
e Casaleggio. Alla base di questi progetti di chiusura nazionalistica vi è la
rabbia della piccola e media imprenditoria, schiacciata dalla concorrenza
globalizzata, dal dominio monopolistico di poche grandi multinazionali,
dall’euro e dalle politiche usuraie delle banche. Tutto questo spiega il succo
piccolo-borghese di questa prospettiva (chiaramente fascistoide): ritornare a un
capitalismo nazionale, produttivo, che tuteli la piccola impresa e preservi la
sovranità “italiana” (a scapito di tutte le altre etnie presenti nel nostro
Paese). E' forse un caso se si segnala una forte crescita di consenso di Grillo
tra la piccola e media borghesia dal Nord Est che prima sosteneva la Lega
Nord?
Per
gli Stati Uniti Socialisti d’Europa: unire le lotte su scala internazionale!
Anche il progetto grillo-fascista non ci appartiene, com’è
ovvio che sia, in quanto siamo comunisti e perciò internazionalisti. Dalla crisi
del capitalismo non si esce né chinandosi alle istituzioni bancarie di questa
Europa (l’Europa del capitale!), né richiudendosi nel recinto nazionalistico, ma
lottando per un’altra Europa, per un’Europa dei lavoratori e delle loro lotte,
per un’Europa socialista. Questa è stata per decenni la parola d’ordine del
movimento rivoluzionario, ed è oggi più attuale di ieri.
Non è una prospettiva utopica: il realismo
della nostra proposta si può cogliere non soltanto guardando agli effetti
disastrosi di questo modello economico e sociale, ma anche dal fatto che ogni
giorno, in ogni parte d’Europa, nascono nuovi focolai di lotta, nuovi conflitti,
nuove battaglie portate avanti da lavoratori, studenti, donne, immigrati. Non
c’è giorno che passi che non nasca un nuovo movimento in qualche zona del
continente (pensiamo alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo). Il nostro scopo,
per dare realtà alla nostra prospettiva, è quello di unire queste lotte,
coordinarle, organizzarle, su scala territoriale, nazionale e internazionale.
Solo unendo le decine e decine di conflitti che stanno nascendo in tutta Europa,
è possibile creare un fronte unico della classe lavoratrice europea che sappia
rispondere, adeguatamente e internazionalmente, alle politiche di austerity
dell’Ue e dei suoi governi, e che possa aprire lo spiraglio per un’altra Europa,
un’Europa dei lavoratori.
Bisogna quindi sviluppare, da queste lotte,
nuovi rapporti di classe a favore della classe lavoratrice, che possano spezzare
e rovesciare il potere attuale, in mano a banche e grandi multinazionali. Per
questo progetto immenso ma necessario, ci siamo dotati di uno strumento, uno
strumento che stiamo perfezionando poco a poco, con la militanza quotidiana e
l’impegno di militanti di tutto il mondo. Questo strumento si chiama Lit, Lega
Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale, di cui noi del Partito di
Alternativa Comunista siamo la sezione italiana.
La Lit è in prima linea nelle più importanti
lotte che stanno attraversando il continente europeo, e in particolare in
Spagna, dove la nostra sezione, Corriente Roja, ha un ruolo importante nella
battaglia campale contro le politiche di austerità del governo Rajoy e nella
coraggiosa opposizione dei minatori delle Asturie. Ma siamo presenti anche in
tante altre decine di Paesi in tutto il mondo, e con un solo fine che ci
poniamo: unire le lotte su scala globale, costruire le basi per spazzare via
quella piccola minoranza di banchieri e speculatori che ci governa e ci sfrutta.
Tutto questo (insieme alla concezione del
partito), tra l'altro, ci distingue non solo dalla sinistra riformista ma
anche dall’altro partito che propone come noi in queste elezioni la falce e
martello e usa la parola d’ordine dell’Europa socialista: stiamo parlando del
Partito comunista dei lavoratori, e del suo anziano leader-guru, Marco Ferrando,
all’ennesima presentazione come candidato premier. Per Ferrando l’Europa
socialista cadrà dal cielo, visto che il suo partito non è parte di nessuna
reale organizzazione internazionale: a meno di non voler definire tale il Crqi,
un coordinamento di fatto tra Pcl, Po argentino e un gruppo greco, un
coordinamento che (si legge sullo stesso sito del Po argentino) è fermo da anni
in una sostanziale "situazione di impasse".
La realtà è che oggi la principale (per
certi versi l'unica) organizzazione trotskista in espansione sui diversi
continenti è la Lit-Quarta Internazionale. Per quanto
relativamente piccola, è oggi l'unica organizzazione che unisce
democraticamente (con regolari congressi, organismi, dibattito) decine di
partiti in tutto il mondo.
Per noi l’Europa socialista non è uno slogan
astrale da pronunciare nei salotti televisivi: a differenza di Ferrando, noi
assieme a tutti gli altri militanti della Lit, questa Europa diversa, questa
Europa dei lavoratori, la stiamo costruendo ogni giorno, passo dopo passo,
dentro le piazze e le fabbriche, nelle lotte quotidiane, e con un programma
rivoluzionario e di classe. Questo è il senso della nostra battaglia
internazionalista!