Siria
L’inizio della fine per Assad
L’inizio della fine per Assad
Con la rivoluzione,
contro le direzioni filo-imperialiste
Ronald León Núñez
(*)

La rivoluzione siriana mantiene il dittatore
Bashar Al Assad con le spalle al muro. I giorni del sanguinario tiranno di
Damasco sembrano essere contati e il suo sinistro regime volge alla
fine.
Assistiamo a una nuova fase della guerra civile siriana da quando i combattimenti hanno fatto irruzione nelle millenarie città di Damasco e Aleppo, rispettivamente la prima capitale e la seconda centro economico del Paese. La spietata lotta è finalizzata anche a controllare posti di frontiera.
Dal 20 luglio è cominciata l’offensiva dell’esercito fedele al dittatore per recuperare Aleppo. Circa 8.000 ribelli dell’Esercito Siriano Libero (Esl), posizionati fra le rovine degli edifici distrutti dall’artiglieria e dalla forza aerea di Assad, difendono questa città, muta testimone delle antiche Crociate. Rivoluzione e controrivoluzione si fronteggiano.
Le truppe dell’esercito regolare, direttamente al comando del fratello minore di Bashar, Maher Al Assad, hanno dispiegato circa 20.000 soldati intorno ad Aleppo, lanciando l’offensiva terrestre dalle prime ore di mercoledì 8 agosto. Il giorno dopo, l’Esl ha confermato di essersi ritirato tatticamente dal quartiere di Saladino, il distretto più popoloso e importante della città. Tuttavia, la lotta per il controllo di tutta la città continua e i ribelli si sono diretti verso Seif-al-Dawla e Machhad, due quartieri più ad est, per aprire un nuovo fronte.
Con l’incursione ad Aleppo e i combattimenti a Damasco – che all’inizio sono arrivati fino al centro stesso della città – l’Esl ha una strategia chiara: obbligare il regime di Assad ad impegnarsi su due fronti distanti fra loro. L’obiettivo è aprire ed estendere un ampio fronte che obblighi Assad a disperdere e dividere le sue truppe per schiacciare gli innumerevoli focolai ribelli. In tal modo, il dittatore si vede costretto a dispiegare forze militari per concentrarle in zone centrali al prezzo di indebolirsi nelle periferie.
Anche quando riesce a far retrocedere i ribelli nelle città importanti, altri focolai di insurrezione scoppiano qui e là. Considerando che in ogni combattimento l’esercito regolare perde uomini e mezzi mentre aumentano le diserzioni a tutti i livelli della catena di comando, fino a quando potrà Assad rispondere agli attacchi in un fronte militare così esteso?
In meno di venti giorni, i ribelli dell’Esl hanno conquistato circa il 60% di Aleppo. Con grande eroismo hanno resistito all’assedio dei blindati e si sono persino impossessati di circa 15 carri armati ed altre armi pesanti delle truppe di Assad. Hanno espugnato commissariati e la Scuola di fanteria dell’esercito, appropriandosi di una grande quantità di armi e munizioni. Quasi tutte le notti i ribelli attaccano con i carri armati sottratti al regime l’aeroporto militare di Mannagh, dove sono di stanza gli elicotteri e gli aerei del governo.
La conquista di Aleppo ha un’importanza strategica, politica e militare per entrambe le parti. Aleppo è, per la rivoluzione siriana, ciò che è stato Bengasi per la Libia. Prendendo la città, i ribelli potrebbero creare una “zona liberata” distante solo 50 km. dalla frontiera con la Turchia, dove potrebbero rifornirsi di materiale bellico, evacuare feriti e istruire truppe. Con Aleppo in mani ribelli, il regime sarebbe praticamente liquidato.
Di fatto, attualmente esistono province, come quella di Deir el Zor o Al-Rastan, che sono controllate dall’Esl. Ad Homs esiste anche un “Comitato rivoluzionario” che organizza la resistenza e svolge alcuni compiti propri del potere politico. Ad Aleppo, i miliziani, oltre a respingere gli attacchi del regime, si sono incaricati di organizzare la raccolta dei rifiuti e la distribuzione del poco pane e dello scarso combustibile di cui dispongono fra gli abitanti che non sono fuggiti dalla città.
Nel mese di giugno, in un’informativa della missione degli osservatori dell’Onu si stimava che il 40% del territorio siriano era sotto controllo dell’opposizione armata. Tuttavia, si tratta di regioni che ricadono per la maggior parte in zone rurali territorialmente non collegate. Di qui l’importanza di conquistare posizioni nei punti nevralgici del Paese. Solo Damasco e Aleppo raggruppano circa otto milioni di abitanti, più di un terzo della popolazione siriana (ventuno milioni di abitanti).
La rivoluzione riguarda quasi tutto il territorio della Siria. Simultaneamente, si verificano massicce mobilitazioni, mentre a Damasco si sono prodotti scioperi dei commercianti. Non ha molto riscontro la propaganda del regime sul pericolo dello scontro confessionale. Le parole d’ordine delle manifestazioni dei “venerdì” fanno appello all’unità: “Uno, uno, uno, il popolo siriano è uno!”, oppure “Una rivoluzione per tutti i siriani!”. La solidarietà nella lotta attraversa tutto il Paese. In diverse città sono state inalberate riproduzioni dell’orologio della piazza di Homs in omaggio agli eroici abitanti di quella città assediata per mesi. Nelle mobilitazioni le persone intonano slogan in solidarietà con le città che vengono represse.
È una guerra tanto disuguale quanto eroica. È una guerra di giovani armati di fucili Kalashnikov, mitragliatrici e lanciarazzi, contro carri armati, franchi tiratori, caccia ed elicotteri d’attacco. È una guerra in cui la popolazione protegge le operazioni militari dell’Esl manifestando massicciamente nelle strade e in cui perfino i funerali dei martiri si trasformano in occasioni di riunioni politiche contro la dittatura.
Le forze dell’Esl crescono ogni giorno. Esistono miliziani armati in dieci delle quattordici province della Siria. Agli inizi di giugno, il numero dei combattenti era stimato in 40.000. Molti giovani si arruolano e fanno di tutto per racimolare i mille dollari che servono per comprare un Kalashnikov di contrabbando. È indubbio che sono gli insorti, e non i soldati della dittatura, ad avere la ferma convinzione della giustezza della causa . La rivoluzione è arrivata al punto in cui può svilupparsi al massimo: le masse lavoratrici non temono di morire. Preferiscono la morte piuttosto che continuare a sopravvivere nell’oppressione cui sono sottoposte.
Assistiamo a una nuova fase della guerra civile siriana da quando i combattimenti hanno fatto irruzione nelle millenarie città di Damasco e Aleppo, rispettivamente la prima capitale e la seconda centro economico del Paese. La spietata lotta è finalizzata anche a controllare posti di frontiera.
Dal 20 luglio è cominciata l’offensiva dell’esercito fedele al dittatore per recuperare Aleppo. Circa 8.000 ribelli dell’Esercito Siriano Libero (Esl), posizionati fra le rovine degli edifici distrutti dall’artiglieria e dalla forza aerea di Assad, difendono questa città, muta testimone delle antiche Crociate. Rivoluzione e controrivoluzione si fronteggiano.
Le truppe dell’esercito regolare, direttamente al comando del fratello minore di Bashar, Maher Al Assad, hanno dispiegato circa 20.000 soldati intorno ad Aleppo, lanciando l’offensiva terrestre dalle prime ore di mercoledì 8 agosto. Il giorno dopo, l’Esl ha confermato di essersi ritirato tatticamente dal quartiere di Saladino, il distretto più popoloso e importante della città. Tuttavia, la lotta per il controllo di tutta la città continua e i ribelli si sono diretti verso Seif-al-Dawla e Machhad, due quartieri più ad est, per aprire un nuovo fronte.
Con l’incursione ad Aleppo e i combattimenti a Damasco – che all’inizio sono arrivati fino al centro stesso della città – l’Esl ha una strategia chiara: obbligare il regime di Assad ad impegnarsi su due fronti distanti fra loro. L’obiettivo è aprire ed estendere un ampio fronte che obblighi Assad a disperdere e dividere le sue truppe per schiacciare gli innumerevoli focolai ribelli. In tal modo, il dittatore si vede costretto a dispiegare forze militari per concentrarle in zone centrali al prezzo di indebolirsi nelle periferie.
Anche quando riesce a far retrocedere i ribelli nelle città importanti, altri focolai di insurrezione scoppiano qui e là. Considerando che in ogni combattimento l’esercito regolare perde uomini e mezzi mentre aumentano le diserzioni a tutti i livelli della catena di comando, fino a quando potrà Assad rispondere agli attacchi in un fronte militare così esteso?
In meno di venti giorni, i ribelli dell’Esl hanno conquistato circa il 60% di Aleppo. Con grande eroismo hanno resistito all’assedio dei blindati e si sono persino impossessati di circa 15 carri armati ed altre armi pesanti delle truppe di Assad. Hanno espugnato commissariati e la Scuola di fanteria dell’esercito, appropriandosi di una grande quantità di armi e munizioni. Quasi tutte le notti i ribelli attaccano con i carri armati sottratti al regime l’aeroporto militare di Mannagh, dove sono di stanza gli elicotteri e gli aerei del governo.
La conquista di Aleppo ha un’importanza strategica, politica e militare per entrambe le parti. Aleppo è, per la rivoluzione siriana, ciò che è stato Bengasi per la Libia. Prendendo la città, i ribelli potrebbero creare una “zona liberata” distante solo 50 km. dalla frontiera con la Turchia, dove potrebbero rifornirsi di materiale bellico, evacuare feriti e istruire truppe. Con Aleppo in mani ribelli, il regime sarebbe praticamente liquidato.
Di fatto, attualmente esistono province, come quella di Deir el Zor o Al-Rastan, che sono controllate dall’Esl. Ad Homs esiste anche un “Comitato rivoluzionario” che organizza la resistenza e svolge alcuni compiti propri del potere politico. Ad Aleppo, i miliziani, oltre a respingere gli attacchi del regime, si sono incaricati di organizzare la raccolta dei rifiuti e la distribuzione del poco pane e dello scarso combustibile di cui dispongono fra gli abitanti che non sono fuggiti dalla città.
Nel mese di giugno, in un’informativa della missione degli osservatori dell’Onu si stimava che il 40% del territorio siriano era sotto controllo dell’opposizione armata. Tuttavia, si tratta di regioni che ricadono per la maggior parte in zone rurali territorialmente non collegate. Di qui l’importanza di conquistare posizioni nei punti nevralgici del Paese. Solo Damasco e Aleppo raggruppano circa otto milioni di abitanti, più di un terzo della popolazione siriana (ventuno milioni di abitanti).
La rivoluzione riguarda quasi tutto il territorio della Siria. Simultaneamente, si verificano massicce mobilitazioni, mentre a Damasco si sono prodotti scioperi dei commercianti. Non ha molto riscontro la propaganda del regime sul pericolo dello scontro confessionale. Le parole d’ordine delle manifestazioni dei “venerdì” fanno appello all’unità: “Uno, uno, uno, il popolo siriano è uno!”, oppure “Una rivoluzione per tutti i siriani!”. La solidarietà nella lotta attraversa tutto il Paese. In diverse città sono state inalberate riproduzioni dell’orologio della piazza di Homs in omaggio agli eroici abitanti di quella città assediata per mesi. Nelle mobilitazioni le persone intonano slogan in solidarietà con le città che vengono represse.
È una guerra tanto disuguale quanto eroica. È una guerra di giovani armati di fucili Kalashnikov, mitragliatrici e lanciarazzi, contro carri armati, franchi tiratori, caccia ed elicotteri d’attacco. È una guerra in cui la popolazione protegge le operazioni militari dell’Esl manifestando massicciamente nelle strade e in cui perfino i funerali dei martiri si trasformano in occasioni di riunioni politiche contro la dittatura.
Le forze dell’Esl crescono ogni giorno. Esistono miliziani armati in dieci delle quattordici province della Siria. Agli inizi di giugno, il numero dei combattenti era stimato in 40.000. Molti giovani si arruolano e fanno di tutto per racimolare i mille dollari che servono per comprare un Kalashnikov di contrabbando. È indubbio che sono gli insorti, e non i soldati della dittatura, ad avere la ferma convinzione della giustezza della causa . La rivoluzione è arrivata al punto in cui può svilupparsi al massimo: le masse lavoratrici non temono di morire. Preferiscono la morte piuttosto che continuare a sopravvivere nell’oppressione cui sono sottoposte.
La nave
affonda
Assad è sempre più isolato. La sua base
sociale e politica sta traballando. Non solo settori della borghesia sannita
cominciano a ritirare il loro appoggio, quanto la situazione è giunta a tal
punto che perfino nelle file della borghesia appartenente alla minoranza alawita
– un ramo dell’islam sciita a cui appartiene il clan Assad – si percepisce odore
di defezione. La crisi economica, acuita dalle sanzioni internazionali e dalla
stessa guerra civile, fa sì che ampi settori borghesi abbandonino il
regime.
Il 17 luglio, un attentato – nientemeno che nella sede dell’Ufficio di Sicurezza Nazionale – ha ucciso quattro alti comandanti della massima direzione militare del regime, fra cui il ministro della Difesa e il cognato di Assad. A questo colpo al cuore del regime si è aggiunto il recente abbandono del primo ministro siriano, Riad Farid Hijab, che ha dichiarato: “Annuncio che lascio il regime del terrorismo e mi unisco alle file della libertà e della dignità. Lo faccio in un momento critico, quando il Paese si trova nella fase più acuta di crimini contro un popolo che ha chiesto una vita dignitosa. A partire da oggi, faccio parte della rivoluzione”. In Siria, ha sostenuto Hijab, “è in corso un genocidio”.
I ribelli hanno salutato la rinuncia del funzionario “con la più alta carica” e l’hanno esibita come la prova che “il regime sta implodendo”. Prima ancora, era fuggito il viceministro del Petrolio, Abdo Houssamedine.
Alcune ore prima dell’abbandono del primo ministro, un nuovo attacco con esplosivo da parte dei gruppi ribelli aveva distrutto l’edificio della televisione di Stato: e solo per poco il ministro dell’Informazione, Omran Al Zobbi, non vi ha trovato la morte.
Sul terreno militare, le cose non vanno meglio per il regime. Nell’esercito, le diserzioni aumentano per quantità e qualità. Si tratta di un processo che va da ufficiali di alto rango fino a piloti di combattimento e un importante numero di soldati semplici. Già sono 31 i generali che hanno disertato dalle file di Assad, il più importante dei quali è stato Manaf Tlass, un generale sunnita di primo livello del regime, che agli inizi di luglio è fuggito in Turchia insieme a 23 ufficiali subalterni. Il primo fra gli alti capi militari a passare nelle file ribelli è stato il colonnello Riad el Assad, che disertò un anno fa per annunciare la nascita dell’Esl in Turchia. A partire dall’attentato che ha decapitato l’alta cupola incaricata della repressione, sono stati più di 2.000 i soldati che hanno disertato.
Altre importanti defezioni hanno riguardato gli ambasciatori siriani in Iraq, Emirati Arabi, Cipro, Oman, Londra e Armenia. A ciò vanno aggiunti quattro deputati, di cui uno membro del nuovo parlamento in carica solo dallo scorso mese di marzo.
Il 17 luglio, un attentato – nientemeno che nella sede dell’Ufficio di Sicurezza Nazionale – ha ucciso quattro alti comandanti della massima direzione militare del regime, fra cui il ministro della Difesa e il cognato di Assad. A questo colpo al cuore del regime si è aggiunto il recente abbandono del primo ministro siriano, Riad Farid Hijab, che ha dichiarato: “Annuncio che lascio il regime del terrorismo e mi unisco alle file della libertà e della dignità. Lo faccio in un momento critico, quando il Paese si trova nella fase più acuta di crimini contro un popolo che ha chiesto una vita dignitosa. A partire da oggi, faccio parte della rivoluzione”. In Siria, ha sostenuto Hijab, “è in corso un genocidio”.
I ribelli hanno salutato la rinuncia del funzionario “con la più alta carica” e l’hanno esibita come la prova che “il regime sta implodendo”. Prima ancora, era fuggito il viceministro del Petrolio, Abdo Houssamedine.
Alcune ore prima dell’abbandono del primo ministro, un nuovo attacco con esplosivo da parte dei gruppi ribelli aveva distrutto l’edificio della televisione di Stato: e solo per poco il ministro dell’Informazione, Omran Al Zobbi, non vi ha trovato la morte.
Sul terreno militare, le cose non vanno meglio per il regime. Nell’esercito, le diserzioni aumentano per quantità e qualità. Si tratta di un processo che va da ufficiali di alto rango fino a piloti di combattimento e un importante numero di soldati semplici. Già sono 31 i generali che hanno disertato dalle file di Assad, il più importante dei quali è stato Manaf Tlass, un generale sunnita di primo livello del regime, che agli inizi di luglio è fuggito in Turchia insieme a 23 ufficiali subalterni. Il primo fra gli alti capi militari a passare nelle file ribelli è stato il colonnello Riad el Assad, che disertò un anno fa per annunciare la nascita dell’Esl in Turchia. A partire dall’attentato che ha decapitato l’alta cupola incaricata della repressione, sono stati più di 2.000 i soldati che hanno disertato.
Altre importanti defezioni hanno riguardato gli ambasciatori siriani in Iraq, Emirati Arabi, Cipro, Oman, Londra e Armenia. A ciò vanno aggiunti quattro deputati, di cui uno membro del nuovo parlamento in carica solo dallo scorso mese di marzo.
Assad applica
metodi nazifascisti di annientamento
Quanto più la situazione si fa disperata,
Assad acuisce la sanguinosa repressione della lotta armata delle masse popolari
siriane. Sono stati perlomeno 21.000 i morti dall’inizio della rivoluzione,
secondo le informazioni rese a fine luglio dall’Osservatorio siriano dei diritti
umani. Il mese di luglio è stato finora il più cruento, con 2.752
vittime.
Alle migliaia di morti va aggiunto come minimo un milione e mezzo di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case per riparare in altre zone del Paese e più di 275.000 rifugiati in Libano, Turchia, Giordania e Iraq: e questa cifra aumenta al ritmo di 700 al giorno. Inoltre, tre milioni di siriani avranno bisogno di aiuti alimentari per un anno, secondo l’Onu.
La situazione è drammatica. La repressione è massiccia. A mo’ d’esempio: solo nella giornata del 18 giugno, almeno 14 città situate in nove province hanno subito bombardamenti da parte dell’esercito, mentre quattro quartieri di Damasco sono stati accerchiati e posti sotto controllo (1). Oltre ai bombardamenti, in questi mesi il regime ha perpetrato atroci massacri contro la popolazione siriana utilizzando bande fasciste chiamate “shabihas”, composte da criminali al soldo del governo.
Per schiacciare la rivoluzione, Assad sta applicando metodi di guerra civile contro il suo popolo, cioè metodi di distruzione massiccia tipici del nazifascismo. L’orribile massacro cui assistiamo è paragonabile ai sanguinosi accadimenti della guerra di Bosnia durante gli anni Novanta; e, risalendo più indietro nel tempo, alla città di Guernica, dove il franchismo, appoggiato politicamente e militarmente da Hitler, bombardò la popolazione civile durante la Guerra civile spagnola.
Alle migliaia di morti va aggiunto come minimo un milione e mezzo di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case per riparare in altre zone del Paese e più di 275.000 rifugiati in Libano, Turchia, Giordania e Iraq: e questa cifra aumenta al ritmo di 700 al giorno. Inoltre, tre milioni di siriani avranno bisogno di aiuti alimentari per un anno, secondo l’Onu.
La situazione è drammatica. La repressione è massiccia. A mo’ d’esempio: solo nella giornata del 18 giugno, almeno 14 città situate in nove province hanno subito bombardamenti da parte dell’esercito, mentre quattro quartieri di Damasco sono stati accerchiati e posti sotto controllo (1). Oltre ai bombardamenti, in questi mesi il regime ha perpetrato atroci massacri contro la popolazione siriana utilizzando bande fasciste chiamate “shabihas”, composte da criminali al soldo del governo.
Per schiacciare la rivoluzione, Assad sta applicando metodi di guerra civile contro il suo popolo, cioè metodi di distruzione massiccia tipici del nazifascismo. L’orribile massacro cui assistiamo è paragonabile ai sanguinosi accadimenti della guerra di Bosnia durante gli anni Novanta; e, risalendo più indietro nel tempo, alla città di Guernica, dove il franchismo, appoggiato politicamente e militarmente da Hitler, bombardò la popolazione civile durante la Guerra civile spagnola.
Le carte
dell’imperialismo
L’imperialismo, che lo ha sostenuto finché
ha potuto, ora vuole cacciare Assad dal governo, prima che siano le masse in
armi a rovesciarlo. Le sottomesse borghesie arabe si accodano a questa
politica.
La rottura dell’imperialismo col suo fedele servitore Assad non ha nulla a che vedere col sentimento umanitario o con l’improvvisa preoccupazione per le libertà democratiche che vengono negate al popolo siriano. Ancor meno ha a che vedere col supposto “antimperialismo” o “antisionismo” di Assad, come va predicando il castro-chavismo.
L’imperialismo – statunitense ed europeo – vuole rovesciare Assad per la semplice ragione che egli non risponde più al principale interesse delle potenze occidentali: sconfiggere il processo rivoluzionario siriano e di tutto il Medio Oriente. Una vittoria delle masse in Siria rafforzerebbe enormemente tutto il processo rivoluzionario nella regione. Non è casuale che la rivoluzione cominci ad esprimersi in Libano, dove settori della popolazione che simpatizzano con la rivoluzione siriana si stanno scontrando con le forze di Hezbollah che continua ad appoggiare fortemente Assad.
Senza condizioni politiche per sostenere un intervento militare in Siria, l’imperialismo sta cercando una soluzione politica negoziata. Cerca di forzare una transizione senza Assad, ma mantenendo l’essenza del regime.
Utilizzando massicciamente il logoramento economico e diplomatico del regime, l’imperialismo va orchestrando una manovra simile a quella dello Yemen, detronizzando Assad – ma con la garanzia dell’impunità per i suoi crimini – per conservare così l’essenziale del regime. Terminata la farsa del “piano di pace” dell’Onu e della Lega Araba con la rinuncia del suo principale propugnatore Kofi Annan, il “Gruppo di Azione per la Siria” propone ora la conferma di un “governo di unità nazionale” fra gli oppositori e i membri dell’attuale regime.
La rottura dell’imperialismo col suo fedele servitore Assad non ha nulla a che vedere col sentimento umanitario o con l’improvvisa preoccupazione per le libertà democratiche che vengono negate al popolo siriano. Ancor meno ha a che vedere col supposto “antimperialismo” o “antisionismo” di Assad, come va predicando il castro-chavismo.
L’imperialismo – statunitense ed europeo – vuole rovesciare Assad per la semplice ragione che egli non risponde più al principale interesse delle potenze occidentali: sconfiggere il processo rivoluzionario siriano e di tutto il Medio Oriente. Una vittoria delle masse in Siria rafforzerebbe enormemente tutto il processo rivoluzionario nella regione. Non è casuale che la rivoluzione cominci ad esprimersi in Libano, dove settori della popolazione che simpatizzano con la rivoluzione siriana si stanno scontrando con le forze di Hezbollah che continua ad appoggiare fortemente Assad.
Senza condizioni politiche per sostenere un intervento militare in Siria, l’imperialismo sta cercando una soluzione politica negoziata. Cerca di forzare una transizione senza Assad, ma mantenendo l’essenza del regime.
Utilizzando massicciamente il logoramento economico e diplomatico del regime, l’imperialismo va orchestrando una manovra simile a quella dello Yemen, detronizzando Assad – ma con la garanzia dell’impunità per i suoi crimini – per conservare così l’essenziale del regime. Terminata la farsa del “piano di pace” dell’Onu e della Lega Araba con la rinuncia del suo principale propugnatore Kofi Annan, il “Gruppo di Azione per la Siria” propone ora la conferma di un “governo di unità nazionale” fra gli oppositori e i membri dell’attuale regime.
Il Cns e la
direzione dell’Esl fanno il coro all’imperialismo
Tesa questa trappola mortale per la
rivoluzione, il Consiglio Nazionale Siriano (Cns), principale organismo di
opposizione, ha rilasciato dichiarazioni che lasciano intendere che sarebbe
disposto ad accettare che “una personalità del regime” di Assad diriga il
Paese durante un periodo di transizione dopo la sua uscita di scena: “Siamo
d’accordo che Al Assad abbandoni il potere trasferendolo ad una delle
personalità del regime per dirigere il Paese durante un periodo di transizione,
così come è avvenuto in Yemen” (El País, 24/7/2012). Il portavoce del
Cns, Georges Sabra, ha dichiarato: “Accettiamo quest’iniziativa perché adesso la
priorità è ottenere che cessino i massacri e proteggere i civili siriani, non il
processo ad Assad”, aggiungendo che “la Siria ha patrioti anche in seno al
regime e alcuni ufficiali dell’Esercito siriano possono svolgere questo ruolo
[di transizione]”.
Di fronte a quest’annuncio, evidenziando così le divisioni in seno all’opposizione, il comando dell’Esl ha respinto in toto l’ipotesi di qualsiasi “governo formato non si sa dove e carente di legittimità nazionale e rivoluzionaria e che non goda dell’appoggio del comando dell’Esl”. Lo schema di transizione dell’Esl, secondo quanto reso noto, è creare un “consiglio superiore di difesa” composto dai capi militari impegnati in battaglia e dagli ufficiali di primo piano che hanno disertato dall’esercito regolare. Un governo composto solo da militari. Questo consiglio, a sua volta, eleggerà un “consiglio di presidenza” formato da sei personalità – politiche e militari – “che dirigerà il Paese durante il periodo transitorio”. La priorità di quest’organismo sarebbe quella della “ristrutturazione degli organismi militari e di sicurezza”.
Il colonnello Riad Asad, uno dei fondatori dello stesso Esl, ha marcato le sue differenze con i militari dell’organismo. Li ha accusati di volersi approfittare “della rivoluzione e del sangue dei martiri” per appropriarsi del potere dopo la caduta del regime di Assad. “Stanno resuscitando il regime di Assad che crolla perché vogliono monopolizzare il potere decisionale”, ha denunciato in un suo discorso sempre secondo El País.
Questa polemica dimostra di che pasta sono fatte le direzioni – militare e politica – della rivoluzione. I membri del Cns vogliono negoziare con l’imperialismo e lo stesso regime siriano, mentre quelli dell’Esl propongono un governo militare il cui primo compito sarà smantellare le milizie popolari.
È inaccettabile per gli scopi della rivoluzione la sola idea di formare un governo con gli assassini del popolo siriano. Richiamiamo l’attenzione sul fatto che queste dichiarazioni del Cns e dell’Esl rappresentano un tradimento della lotta popolare in Siria. Queste direzioni dimostrano così il loro carattere traditore e la loro profonda inconseguenza rispetto alla ascesa della rivoluzione.
Noi sosteniamo che le masse popolari siriane non possono né devono riporre fiducia in queste direzioni borghesi e filo-imperialiste, che per il loro stesso carattere di classe finiranno per tradire inevitabilmente tutte le legittime aspirazioni popolari, non solo quelle economiche ma perfino quelle che hanno a che fare con le più elementari libertà democratiche. L’unico destino politiche che Assad e i suoi seguaci meritano è quello di Gheddafi. L’unico governo che può risolvere i problemi di fondo del proletariato siriano, a partire dalle libertà democratiche, è un governo operaio e popolare appoggiato sulle milizie armate.
In questo senso, è fondamentale espandere e rafforzare i cosiddetti “Comitati di coordinamento locale” in cui vengono decise ed organizzate le battaglie sul campo, convocate le mobilitazioni e forniti copertura e appoggio effettivo all’Esl nelle città e nei quartieri. Come abbiamo già detto, in diverse città sono questi organismi a controllare l’amministrazione dei servizi.
Senza rompere la necessaria unità d’azione fra tutti i settori del campo militare ribelle, appare fondamentale che questi comitati locali e le milizie popolari si costruiscano come un’alternativa di direzione indipendente per tutta la lotta contro il regime.
Di fronte a quest’annuncio, evidenziando così le divisioni in seno all’opposizione, il comando dell’Esl ha respinto in toto l’ipotesi di qualsiasi “governo formato non si sa dove e carente di legittimità nazionale e rivoluzionaria e che non goda dell’appoggio del comando dell’Esl”. Lo schema di transizione dell’Esl, secondo quanto reso noto, è creare un “consiglio superiore di difesa” composto dai capi militari impegnati in battaglia e dagli ufficiali di primo piano che hanno disertato dall’esercito regolare. Un governo composto solo da militari. Questo consiglio, a sua volta, eleggerà un “consiglio di presidenza” formato da sei personalità – politiche e militari – “che dirigerà il Paese durante il periodo transitorio”. La priorità di quest’organismo sarebbe quella della “ristrutturazione degli organismi militari e di sicurezza”.
Il colonnello Riad Asad, uno dei fondatori dello stesso Esl, ha marcato le sue differenze con i militari dell’organismo. Li ha accusati di volersi approfittare “della rivoluzione e del sangue dei martiri” per appropriarsi del potere dopo la caduta del regime di Assad. “Stanno resuscitando il regime di Assad che crolla perché vogliono monopolizzare il potere decisionale”, ha denunciato in un suo discorso sempre secondo El País.
Questa polemica dimostra di che pasta sono fatte le direzioni – militare e politica – della rivoluzione. I membri del Cns vogliono negoziare con l’imperialismo e lo stesso regime siriano, mentre quelli dell’Esl propongono un governo militare il cui primo compito sarà smantellare le milizie popolari.
È inaccettabile per gli scopi della rivoluzione la sola idea di formare un governo con gli assassini del popolo siriano. Richiamiamo l’attenzione sul fatto che queste dichiarazioni del Cns e dell’Esl rappresentano un tradimento della lotta popolare in Siria. Queste direzioni dimostrano così il loro carattere traditore e la loro profonda inconseguenza rispetto alla ascesa della rivoluzione.
Noi sosteniamo che le masse popolari siriane non possono né devono riporre fiducia in queste direzioni borghesi e filo-imperialiste, che per il loro stesso carattere di classe finiranno per tradire inevitabilmente tutte le legittime aspirazioni popolari, non solo quelle economiche ma perfino quelle che hanno a che fare con le più elementari libertà democratiche. L’unico destino politiche che Assad e i suoi seguaci meritano è quello di Gheddafi. L’unico governo che può risolvere i problemi di fondo del proletariato siriano, a partire dalle libertà democratiche, è un governo operaio e popolare appoggiato sulle milizie armate.
In questo senso, è fondamentale espandere e rafforzare i cosiddetti “Comitati di coordinamento locale” in cui vengono decise ed organizzate le battaglie sul campo, convocate le mobilitazioni e forniti copertura e appoggio effettivo all’Esl nelle città e nei quartieri. Come abbiamo già detto, in diverse città sono questi organismi a controllare l’amministrazione dei servizi.
Senza rompere la necessaria unità d’azione fra tutti i settori del campo militare ribelle, appare fondamentale che questi comitati locali e le milizie popolari si costruiscano come un’alternativa di direzione indipendente per tutta la lotta contro il regime.
Per la vittoria
della rivoluzione siriana!
La Lit-Quarta Internazionale conferma il suo
incondizionato appoggio alla rivoluzione siriana. La nostra parola d’ordine
centrale è: “Via Assad! No all’intervento imperialista!”.
Siamo per la caduta di Assad per mano delle mobilitazioni popolari e della lotta armata delle masse. Questo è il primo compito fondamentale della rivoluzione. In questo senso, mantenendo l’indipendenza di classe dei lavoratori, siamo per la più ampia unità d’azione sul solo piano militare con tutti i settori che stanno concretamente lottando contro la dittatura siriana, compresi i borghesi e filo-imperialisti del Cns e il comando dell’Esl, per ottenere il rovesciamento di Assad e la liquidazione del suoi regime controrivoluzionario.
È in questo processo di lotta ampia e unitaria contro il regime, dislocandoci nel campo militare ribelle, che dobbiamo combattere queste direzioni traditrici costruendo l’indispensabile direzione rivoluzionaria e internazionalista di cui il processo ha bisogno per avanzare.
Ci sembra urgente unificare tutte le mobilitazioni e azioni armate che si verificano in tutto il Paese, fino ad ottenere la caduta del regime. Va approfondita la divisione dell’esercito di Assad, mentre si debbono continuare a formare milizie armate, autorganizzate a partire dai consigli popolari democratici.
In questo senso, sosteniamo e appoggiamo l’aspirazione delle masse a fare giustizia ricorrendo alla violenza rivoluzionaria contro i prigionieri del regime e le “shabihas”, assassini assoldati allo scopo di assassinare la popolazione civile.
È fondamentale inoltre sostenere vaste campagne internazionali e lotte unitarie di appoggio alla rivoluzione siriana, per quanto piccole possano essere da principio, esigendo la rottura immediata di tutti i governi con l’assassino Assad. Queste campagne dovranno essere condotte contro le direzioni castro-chaviste che fino ad oggi stanno vergognosamente appoggiando un governo genocida e filo-imperialista.
Dobbiamo anche esigere urgentemente l’invio di armi e volontari per lottare nel campo militare ribelle. Dobbiamo avanzare a tutti i governi – soprattutto a quelli dei Paesi in cui sono in corso processi rivoluzionari – questa rivendicazione di appoggio militare concreto.
Una vittoria della rivoluzione siriana sarà la vittoria di tutti gli sfruttati del mondo. Sarà la vittoria contro un regime sanguinario e servo dell’imperialismo. Dimostrerà, come fa tutto il mondo arabo, che le rivoluzioni sono possibili e che è possibile vincere.
Siamo per la caduta di Assad per mano delle mobilitazioni popolari e della lotta armata delle masse. Questo è il primo compito fondamentale della rivoluzione. In questo senso, mantenendo l’indipendenza di classe dei lavoratori, siamo per la più ampia unità d’azione sul solo piano militare con tutti i settori che stanno concretamente lottando contro la dittatura siriana, compresi i borghesi e filo-imperialisti del Cns e il comando dell’Esl, per ottenere il rovesciamento di Assad e la liquidazione del suoi regime controrivoluzionario.
È in questo processo di lotta ampia e unitaria contro il regime, dislocandoci nel campo militare ribelle, che dobbiamo combattere queste direzioni traditrici costruendo l’indispensabile direzione rivoluzionaria e internazionalista di cui il processo ha bisogno per avanzare.
Ci sembra urgente unificare tutte le mobilitazioni e azioni armate che si verificano in tutto il Paese, fino ad ottenere la caduta del regime. Va approfondita la divisione dell’esercito di Assad, mentre si debbono continuare a formare milizie armate, autorganizzate a partire dai consigli popolari democratici.
In questo senso, sosteniamo e appoggiamo l’aspirazione delle masse a fare giustizia ricorrendo alla violenza rivoluzionaria contro i prigionieri del regime e le “shabihas”, assassini assoldati allo scopo di assassinare la popolazione civile.
È fondamentale inoltre sostenere vaste campagne internazionali e lotte unitarie di appoggio alla rivoluzione siriana, per quanto piccole possano essere da principio, esigendo la rottura immediata di tutti i governi con l’assassino Assad. Queste campagne dovranno essere condotte contro le direzioni castro-chaviste che fino ad oggi stanno vergognosamente appoggiando un governo genocida e filo-imperialista.
Dobbiamo anche esigere urgentemente l’invio di armi e volontari per lottare nel campo militare ribelle. Dobbiamo avanzare a tutti i governi – soprattutto a quelli dei Paesi in cui sono in corso processi rivoluzionari – questa rivendicazione di appoggio militare concreto.
Una vittoria della rivoluzione siriana sarà la vittoria di tutti gli sfruttati del mondo. Sarà la vittoria contro un regime sanguinario e servo dell’imperialismo. Dimostrerà, come fa tutto il mondo arabo, che le rivoluzioni sono possibili e che è possibile vincere.
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(1) Leila Vignal, "Anatomia della rivoluzione", pubblicato sul sito web Viento Sur, 5 agosto 2012.
(*) dal sito della
Lit-Quarta Internazionale
(Traduzione
dall’originale in spagnolo di Valerio Torre)