Partito di Alternativa Comunista

Covid-19 inchioda i picconatori della sanità pubblica alle loro responsabilità

Covid-19 inchioda i picconatori 

della sanità pubblica alle loro responsabilità 

 

 

 

di Mario Avossa (medico)

 

 

 

Le epidemie fanno parte della storia sociale dell’umanità. Le prime comunità umane erano attentissime a prevenire le malattie e quindi all’igiene personale e collettiva, guadagnando i siti ove l’acqua fosse pulita, potabile e abbondantemente disponibile, da cui la prossimità con caverne e grotte. Paradossalmente, in quest’epoca capitalista l’intero ciclo planetario dell’acqua è inquinato e vaste masse di popolazioni in vari continenti non dispongono di acqua pulita né a sufficienza. In questa Cina capitalista nei wet market si affollano masse povere che acquistano e consumano di tutto, anche pipistrelli, abbondanti in natura; gli animali sono venduti vivi per tradizione -e anche perché scarseggiano le celle frigo- senza alcuna norma igienica, e sono macellati in presenza del compratore. Il freddo, la povertà, gli stenti, la stretta coabitazione, i trasporti, hanno fatto il resto.
Ma non tutte le epidemie hanno avuto la giusta enfasi mediatica, ricordiamo le epidemie orfane, di cui presto ci si dimentica: Zika in Brasile, Mers, Sars-1. Ebola. Finché hanno flagellato popolazioni povere e lontane dai riflettori mediatici del capitalismo che conta, sono state osservate con sufficienza, a debita distanza. Egualmente è accaduto nell’Hu Bei. Il governo cinese ha colpevolmente omesso prima e ritardato poi di dispiegare le misure di sanità pubblica necessarie a contenere l’epidemia, perché agiva su strati di classi inferiori, in popolazioni di regioni continentali povere e remote. Ma quando l’epidemia si è estesa, e il contagio ha velocemente raggiunto le ricche regioni costiere, si è resa evidente agli apparati del governo cinese e ha destato allarme. Ma ormai era troppo tardi, perché il coronavirus era già disseminato in Cina e, rapidamente, per il tramite dei trasporti internazionali, ha guadagnato focolai in mezzo mondo. La cosa era sfuggita di mano.

Diecimila morti in Italia, centinaia di migliaia di contagiati
Al momento in cui scriviamo, contiamo più di diecimila morti in Italia, più che in Cina, primi nel mondo.
Attualmente non sono disponibili farmaci sicuramente attivi contro il Coronavirus, né potremo avere un vaccino prima di diciotto mesi. L’elevato numero di vittime in Italia da Sars-Covid-19 è dovuto al fallimento delle politiche sanitarie di contenimento e alla discrepanza fra bisogno e offerta sociale di assistenza sanitaria, reso acuto dalla velocità di propagazione del contagio.
Indipendentemente dalle ragioni biologiche e mediche della pandemia, dobbiamo denunciare le ragioni politiche di tanti morti. La litania della sanità migliore del mondo è stata sostituita dalla retorica degli eroi.
Nessuno si è reso conto che la sanità pubblica italiana si sorreggeva a malapena su un numero insufficiente di lavoratori ai quali si chiedeva di sopperire alle carenze strutturali. Il loro sfruttamento, le loro virtù professionali, però, appena bastavano a mantenere in piedi un sistema picconato da oltre vent’anni di tagli dissennati e mancate assunzioni operati dai governi borghesi di ogni colore politico. Era una forma occulta di compenso. Ma era soprattutto uno sfruttamento dei lavoratori dipendenti, cui si chiedevano sacrifici per il bene pubblico. Questa era «la sanità migliore del mondo». L’epidemia ha fatto cedere di schianto il Ssn. Non si sa più dove collocare i malati, bisogna scegliere chi intubare e chi lasciar stare, come in uno scenario di guerra. La passione professionale e la qualità clinica non sono bastate più. È crollato tutto. Gli stessi soccorritori, le infermiere, i medici si sono contagiati in gran numero e molti sono deceduti. Sono stati mandati come soldati disarmati al fronte, privi di dpi idonei, sottoposti a turni lunghissimi al termine dei quali è facile incorrere in piccole distrazioni fatali. Al momento in cui scriviamo, contiamo 58 medici deceduti e 6.414 operatori sanitari contagiati il 9% dei contagi totali noti.
Il governo ha affrontato l’epidemia in ordine sparso, in totale confusione e in aperto conflitto con i presidenti delle giunte regionali; il focolaio veneto di Vo è stato circoscritto da un cordone sanitario e si è iniziato uno studio epidemiologico coerente; in Lombardia nemmeno questo; in entrambe le regioni densamente popolate e molto industrializzate gli operai sono stati costretti dagli industriali a proseguire il lavoro; i familiari sono stati abbandonati al loro destino, all’ineluttabile contagio. Giungono notizie inquietanti dalla provincia di Bergamo, dove ai primi segnali epidemici le giunte comunali di Alzano Lombardo e Nembro avevano predisposto un cordone sanitario e la contumacia ma alcuni importanti industriali della zona (si fanno ufficiosamente i nomi di Persico, Polini e Pigna) avrebbero agito dietro le quinte per ottenere la revoca immediata della disposizione in modo da poter continuare a impiegare manodopera per la produzione industriale. I focolai si sono distribuiti sul territorio italiano, assecondando la distribuzione geopolitica delle concentrazioni produttive.
Abbiamo assistito all’incongruenza fra rigide misure collettive di contenimento dell’epidemia (contumacia, quarantena, cordone sanitario) e permissivismo rispetto ai diktat della borghesia capitalista, impersonata dal sistema bancario e da Confindustria. Questi non hanno consentito agli operai e ai lavoratori dipendenti di poter rispettare sui luoghi di lavoro le misure precauzionali basilari. I treni di pendolari sono rimasti affollati, luogo di contagio. A peggiorare le cose, il drammatico disastro del Frecciarossa, che ha sospinto migliaia di pendolari lombardi ad assieparsi nei vagoni dei treni sostitutivi. Le aziende restano aperte, nonostante le proteste dei lavoratori, costretti al lavoro e al rischio di contagio. I profitti delle aziende vengono prima della salute dei lavoratori; e questo l’abbiamo visto in molte circostanze, non ultima la lenta carneficina di operai all’Ilva di Taranto e delle famiglie proletarie residenti nel quartiere Tamburi. Appare la protesta «Quarantena in casa, contagio in fabbrica».

Il Ssn al collasso dopo anni di tagli selvaggi
Il disastro cui assistiamo non è dovuto solo o semplicemente all’incapacità degli apparati dei ceti dirigenti, palese di fronte a una cosa più grossa di loro. L’inettitudine del governo e delle sue articolazioni è rivelata anche da episodi aneddotici, tragicomici, come il contagio contratto da alcuni suoi alti funzionari. Appellarsi all’inettitudine, come fanno i riformisti o gli sciacalli delle destre, è riduttivo perché elude il fatto, dinanzi agli occhi di tutti, che il disastro consiste nell’insufficienza del Sistema Sanitario Nazionale rispetto ai bisogni reali della popolazione di fronte a un contagio di massa. È stato mortificato da anni di definanziamento, chiusura o ridimensionamento degli ospedali italiani, tagli dissennati di posti-letto, riduzione progressiva del personale dipendente, cancellazione delle strutture di territorio, assenza di politiche di prevenzione, stipendi miserabili, precariato, esternalizzazioni e privatizzazioni a tappeto; appesantito da un apparato burocratico ipertrofico e lautamente retribuito, da regali alla sanità privata, oggi opulenta, dai comitati paritetici stretti fra i massimi dirigenti delle Ooss maggiori e Confindustria nel business del welfare aziendale, con vantaggi generosi per le assicurazioni private. Queste sono le conseguenze delle dure applicazioni dei piani d’ispirazione neoliberista del capitalismo. Sono sopraggiunte negli anni novanta del secolo scorso quando il capitalismo le ha introdotte per tappe successive, a partenza dagli imperialismi anglosassoni, incalzando la classe operaia. Questa aveva strappato alla borghesia capitalista un sistema di welfare pubblico più favorevole alle sue esigenze, con dure lotte di anni. Man mano che l’attacco capitalista avanzava, sotto la spinta di successive crisi economiche internazionali, le Ooss e i partiti della sinistra riformista hanno arretrato, concedendo ai ceti al potere terreno per le loro pretese, con la svendita delle conquiste operaie ottenute in mezzo secolo di lotte. Hanno seminato illusioni riformiste, rinvii a un futuro improbabile, la menzogna di coabitare nella stessa barca, hanno costretto la classe lavoratrice a un abbraccio mortale con la borghesia fino a concordare con i padroni le restrizioni al diritto di sciopero, l’abolizione dell’articolo 18, i licenziamenti di massa, la precarietà a tempo indefinito. Nonostante esemplari focolai di resistenza, la classe operaia è stata consegnata nelle mani dei suoi macellai. Questa è l’austerity, cioè lo smantellamento progressivo di ogni conquista sociale operaia di questi anni, compresa quella del Ssn.

Come hanno fatto?
Ligi ai diktat delle istituzioni bancarie europee, i governi italiani si sono dedicati al regolare e costante smantellamento del Ssn.Un primo nucleo di vulnerabilità è contenuto già nella legge istitutiva del Ssn, la 833-78, che disarticola la sanità pubblica in ambiti regionali. Il Ssn era nato parcellizzato e organizzato in una miriade di piccole Unità sanitarie locali, rette da comitati di gestione in cui erano presenti i delegati dei partiti dell’allora «arco costituzionale». Ma nel 1992, in concomitanza con le cruente convulsioni che portarono al governo i settori neoliberisti della borghesia, iniziò l’attacco frontale: rapidamente le Usl furono sciolte e accorpate in Aziende sanitarie locali e furono sottoposte a vincoli di produttività e di bilancio, operando una forzatura in senso neoliberista. Hanno iniziato così a sottrarre fondi al Ssn con lo scopo di depotenziarlo gradualmente e rastrellare risorse da stornare a favore di banchieri e industriali, sanità privata e compagnie assicurative. I governi negano; in questi anni i governi e tutti i diversi partiti borghesi che si sono avvicendati al potere hanno esclamato di aver aumentato i fondi destinati al Ssn. Ma è davvero così?
No. Secondo il rapporto Gimbe 20191 nel decennio 2010-2019, il finanziamento pubblico del Ssn è aumentato complessivamente di € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo. È un tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua, che è l’1,07%. L’incremento del fabbisogno sanitario nazionale (Fsn) nell’ultimo decennio è solo apparente, perché non è stato neppure sufficiente a mantenere il potere di acquisto. Nel rapporto, cui rimandiamo, appare un’accurata cronologia politica delle tappe del definanziamento, che evidenzia come ogni governo, di qualsiasi colore politico, si sia reso responsabile dei tagli alla sanità pubblica.
Il governo Conte-bis nasce nel 2019 con un programma che esplicitamente non include il rifinanziamento del Ssn, nonostante che il neoministro Speranza, in quota Leu, si sia affrettato a porre una pezza promettendo: «Io chiedo già dalla prossima manovra finanziaria più risorse per la sanità». E il gioco delle parti è fatto.
Dai dati resi pubblici si evince che nel decennio 2010-2019 tra tagli e definanziamenti al Ssn sono stati sottratti circa 37 miliardi di euro e il Fsn è aumentato di soli 8,8 miliardi. Attualmente la maggior parte dei nuovi Lea non sono ancora esigibili in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, con un grave ritardo delle regioni meridionali. Il rapporto non può menzionare la quota erosa in corruttela e prebende da nababbi. Con un eufemismo, il rapporto fa però rilevare: «Sprechi e inefficienze che si annidano a tutti i livelli del Ssn continuano a erodere preziose risorse».
L’ipertrofia del settore privato convenzionato appesantisce la spesa sanitaria e le diseguaglianze sociali, alimenta il consumismo sanitario e rischia di indurre fenomeni di sovradiagnosi e sovra-trattamento, come spiacevoli fatti di cronaca hanno evidenziato in questi ultimi anni.
Il definanziamento della sanità pubblica, correlato ormai in modo strutturale alla crisi economica del capitalismo, si è trasformato in una costante irreversibile. Nel periodo 2010-2015 il Ssn si è fatto pesantemente carico della crisi, utilizzato dai governi della borghesia come terreno di saccheggio per convogliare risorse in direzione di banche e imprese. Un’ipotetica ripresa economica del Paese non avrebbe comunque un corrispondente positivo riflesso sulla spesa sanitaria. Infatti, l’analisi del Rapporto Gimbe dei Def 2017, 2018 e 2019 dimostra che il rapporto spesa sanitaria/Pil nel medio termine è sempre rivisto al ribasso, documentando sia la tendenza a spostare in avanti le (illusorie) previsioni di crescita economica, sia la precisa intenzione di non rilanciare il finanziamento della sanità pubblica.
Queste decisioni di politica finanziaria di lunga durata documentano inequivocabilmente che per nessun governo borghese nell’ultimo decennio la sanità pubblica ha mai rappresentato una priorità politica. Come si vede, quando l’economia è stagnante, la sanità si trasforma in un bancomat cui attingere a man bassa; diversamente, in caso di crescita economica, i benefici per il Ssn non sono proporzionali, rendendo di fatto impossibile qualsiasi rilancio del finanziamento pubblico.
Nonostante le manovre di occultamento dei dati economici, il definanziamento del Ssn è visibile da una gran mole di numeri tra finanziamenti programmati dai Def, fondi assegnati dalle leggi di Bilancio, tagli e contributi alla finanza pubblica a carico delle regioni.2

I piani di rientro
Un altro strumento, stavolta regionale, per infliggere tagli al Ssn sono i famigerati piani di rientro. Sono nati dalla modifica peggiorativa del Titolo V della Costituzione, che assegna alle regioni il gravame del pareggio di bilancio nel rispetto della garanzia dei Lea (Livelli essenziali di assistenza) stabiliti a livello statale. Con il risultato che i Lea sono rimasti pie illusioni mentre i tagli sono stati reali. Hanno operato con un meccanismo ricattatorio simile, in piccolo, al Mes. Citiamo da una pubblicazione della Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, numero 427 del marzo 2018, “La sanità in Italia: il difficile equilibrio tra vincoli di bilancio e qualità dei servizi nelle regioni in piano di rientro”: «..sono state introdotte nel nostro ordinamento condizioni per l’accesso alle risorse sanitarie, separando e posticipando l’erogazione di una parte del fondo sanitario nazionale spettante a ogni Regione (cosiddetta quota premiale) alla verifica dell’equilibrio di bilancio»; il ricatto è qui: «Al fine di favorire il ripiano anche dei disavanzi pregressi, la stessa legge finanziaria ha stanziato risorse aggiuntive, vincolandone l’erogazione alla stipula di uno specifico accordo da parte della Regione in disavanzo».3 Questo meccanismo è stato utilizzato per attribuire vincoli di bilancio a ciascuna Regione e per spostare ingenti quantità di risorse pubbliche che hanno messo in ginocchio strutture, dipendenti e funzionalità dell’offerta sanitaria in ogni Regione ma soprattutto delle regioni meridionali che, in modo indiretto, hanno garantito sulla pelle delle popolazioni finanziamenti a fondo perduto a banche e imprese.

Vincoli europei e regioni meridionali    
Nel recente Rapporto Svimez 20194 il ritardo di sviluppo economico è un ritardo italiano, non solo meridionale. È descritto come «doppio divario». Il nord e sud del Paese sono bloccati nel panorama europeo, perciò l’intero complesso economico italiano si allontana dall’Europa. Nel contempo i divari interni non accennano a diminuire.
Il panorama europeo, secondo il rapporto Svimez, è caratterizzato da un pronunciato processo di convergenza sperimentato dall’Europa dell’Est, l’allontanamento dei Paesi dell’Europa del sud, Italia inclusa, dai livelli medi di tenore di vita europei; la crescita tendenziale del reddito pro capite nell’Europa del nord; e la tenuta del dato relativo alle economie dell’Europa centrale, Germania inclusa [...]. Fatta 100 la media europea, tra il 2006 ed il 2017, tutte le regioni italiane, nessuna esclusa, hanno registrato un calo del Pil per abitante. In altri termini, il sacrificio delle regioni meridionali non è valso a salvare dal declino le economie produttive delle regioni settentrionali.
L’economia meridionale si trova a competere, soprattutto dopo l’allargamento a est dell’Ue, con economie arretrate in forte crescita e competitive. È rispetto a queste economie, alle altre regioni europee, che queste aree geopolitiche beneficiano dei sistemi di coesione europea, motivo per il quale il sud ha perso terreno, in presenza di uno svantaggio connesso alla sua appartenenza a un’economia nazionale dove vige un carico fiscale elevatissimo rispetto a quello praticato nei Paesi dell’Europa dell’est. Il capitalismo europeo, in breve, non sa che farsene della scarsa competitività delle regioni meridionali della Penisola.

Il regionalismo differenziato
La contesa sui residui fiscali alla base delle richieste di regionalismo differenziato da una parte rappresenta la risposta isterica di Regioni produttive che temono un tracollo dall’imminente recessione; dall’altra non poggia su dati veritieri perché i dati provenienti dalla Corte dei conti, il sistema dei Conti pubblici territoriali (Cpt)5 rivelano una distribuzione regionale della spesa pubblica a vantaggio delle regioni settentrionali. I dati ufficiali smentiscono le dichiarazioni propagandistiche dei Presidenti delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Il Mezzogiorno in povertà. «Non ci sono i soldi»
Secondo il rapporto Svimez citato, il dato più preoccupante, nel 2018, che segna la divergente dinamica territoriale, è il ristagno dei consumi nell’area (+0,2, contro il +0,7 del resto del Paese). Mentre il centro-nord ha ormai recuperato e superato i livelli pre crisi, nel Mezzogiorno i consumi sono ancora al di sotto del livello del 2008 di -9 punti percentuali. E prosegue: ma soprattutto è mancato l’apporto del settore pubblico. La spesa per consumi finali delle amministrazioni pubbliche ha segnato un ulteriore -0,6% nel 2018, proseguendo un processo di contrazione che, cumulato nel decennio 2008-2018, risulta pari a -8,6%, mentre nel centro-nord la crescita registrata è dell’1,4%. Questa è una delle cause principali, a dispetto dei luoghi comuni, che spiega la dinamica divergente tra le aree.
Nel 2018, stima il rapporto Svimez, sono stati investiti in opere pubbliche nel Mezzogiorno 102 euro pro capite rispetto a 278 nel centro-nord (nel 1970 erano rispettivamente 677 euro e 452 euro pro capite).
Dai dati Svimez apprendiamo che è drammatico il gap occupazionale. Nel Mezzogiorno, l’occupazione, nella media dei primi due trimestri del 2019, è in calo in Abruzzo, Campania, Calabria e Sicilia. Nello stesso periodo aumenta la precarietà al sud e si riduce nel centro-nord: è più elevato nelle aree meridionali negli ultimi anni il peso delle assunzioni a termine sul totale delle nuove e maggiore anche la precarietà. Al sud, il tasso di occupazione giovanile 15-34 anni ancora nel 2019 è intorno al 29%, un dato senza paragoni in Europa.
Nel 2018 l’incidenza della povertà assoluta sale nel sud all’8%, era al 7,2% nel 2017 (5,6% al nord e 4,9% al centro), su valori doppi rispetto a quelli del 2008; la quota di famiglie in povertà assoluta con un operaio capofamiglia sale al 14,7% nel Mezzogiorno (era l’11,7% nel 2017) mentre scende di circa un punto intorno all’11% nel centro-nord.
Niente welfare al sud, sanità poco credibile
Sempre dal Rapporto Svimez apprendiamo che in questo contesto le popolazioni del sud hanno difficoltà di accesso ai servizi pubblici: l’istruzione, la salute e l’assistenza. Lo squilibrio tra necessità e risposte ricevute si rileva, ad esempio, per le famiglie che hanno un componente con problemi di salute. Il Rapporto evidenzia che, dove la richiesta è maggiore, la risposta è minore: nel Mezzogiorno il 35,6% delle famiglie vorrebbe ricevere aiuto ma solo il 12,5% lo riceve. Quantità e qualità dell’assistenza sanitaria nel Mezzogiorno restano sensibilmente inferiori rispetto alle regioni settentrionali. I posti letto complessivi per 100.000 abitanti sono 791 nel centro e nord e 363 nel Mezzogiorno. Questo genera un copioso flusso di emigrazione sanitaria verso le regioni del nord, principalmente per interventi chirurgici ma anche per alta specialistica. Nel Mezzogiorno circa il 10% del totale dei residenti ricoverati per patologie chirurgiche si sposta verso altre regioni, a fronte di valori compresi tra il 5% e il 6% nelle regioni del centro e del nord. Quindi si apre un’altra voce d’indebitamento diretto delle regioni meridionali verso quelle settentrionali.

Il divario attuale della sanità fra sud e nord
In Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta i residenti hanno una disponibilità di strutture e servizi sanitari molto maggiore di quelli offerti al resto del Paese. Molto più alti della media nazionale sono gli investimenti in Emilia Romagna, Toscana e Veneto. Appare, invece, un gruppo di regioni con livelli d’investimento intorno alla metà della media nazionale: Puglia, Molise, Campania e Lazio. Drammatico il dato della Calabria: con meno di 16 euro pro-capite abbiamo una intensità di investimento nella sanità quasi 12 volte inferiore a quella della Provincia Autonoma di Bolzano e quasi tre volte inferiore alla media nazionale.
Covid-19 nel Mezzogiorno
In questo contesto l’evidenza che l’epidemia abbia colpito meno duramente al sud è conseguenza del fatto che le popolazioni meridionali sono state lasciate indietro in tutti gli aspetti economici e sociali da una pianificazione capitalista che adotta da decenni questa strategia di dominio, inclusa la restrizione al minimo possibile dell’assistenza sanitaria pubblica. Il settentrione del Paese è stato flagellato più brutalmente dal morbo perché è lì che si concentrano masse attive di proletariato, radunate in agglomerati industriali e settori produttivi. Al nord i contagi si sono sviluppati fra i lavoratori, come la decimazione dei dipendenti della sanità dimostra. Il pendolarismo dei lavoratori è stato fattore amplificante.
Date queste premesse, il governo è andato in panico. Non ha temuto per la salute delle masse proletarie meridionali, il massimo comitato d’affari della borghesia non si pone questo genere di preoccupazioni. Ha temuto, piuttosto, le conseguenze, e cioè che l’eventuale contagio massivo delle popolazioni meridionali producesse spettacoli raccapriccianti nelle strade, stante al minimo la capacità reattiva del Ssn. Ha temuto sollevazioni spontanee, assembramenti di piazza di rivoltosi, l’organizzarsi temibile di una rivolta in cui i temi della lotta di classe avrebbero rischiato di farsi largo fra le masse atterrite. Non a caso in queste ore sono entrati in azione i servizi di sicurezza per rifornire il governo d’informazioni utili. In varie regioni meridionali si osservano focolai in cui piccoli gruppi di proletari danno l’assalto ai supermercati asportando generi alimentari; e singoli in preda alla disperazione per essere rimasti privi di cibo. Ai capitalisti non importa nulla della disperazione del proletariato, a loro importa che queste sofferenze non generino proteste di classe, organizzate o meno. Questa è la spiegazione della precipitosa decisione del governo di estendere la zona rossa all’intero Paese.

Il capitalismo ha fallito, dobbiamo sbarazzarcene
Un pugno di capitalisti detiene il controllo politico, economico, militare e sociale delle classi oppresse. Nello scorcio del primo ventennio del XXI secolo il capitalismo ha conosciuto già tre crisi globali subentranti; come Marx aveva previsto, ognuna di queste crisi è più profonda della precedente e dalle convulsioni che ne seguono non può che uscirne un riassestamento su livelli di stabilità inferiori a quelli precedenti. Eventi bellici e guerre commerciali si susseguono ma senza che riescano a placare la crisi strutturale del capitalismo. I capitalisti sono nel panico, consapevoli di aver fallito. La salute delle masse proletarie è l’ultimo dei loro problemi. L’epidemia Covid-19 si è inserita nel momento peggiore possibile, cioè all’ingresso di una nuova crisi di sovrapproduzione peggiore di quella del 1929, cui guardano con preoccupazione gli imperialismi del mondo. Per questo il capitalismo non teme il Coronavirus in sé ma le nefaste conseguenze sui mercati globali che l’epidemia innesca come un enzima catalizzatore. Non c’è dubbio che anche questa volta il capitalismo scaricherà sulle masse operaie e popolari tutto il costo della sua crisi economica, è solo questione di tempo6, e ciò non farà altro che aggravare le condizioni di vita attuali del proletariato. Perciò non dovrebbe farsi attendere la risposta operaia e l’unico mezzo di cui la classe operaia dispone per fronteggiare l’attacco capitalista è lo sciopero.
La crisi economica globale si acuisce, di fronte a un pianeta incendiato, solo pochi mesi fa, dalle fiamme dell’inferno capitalista, avvelenato nei suoi sistemi biologici, deturpato nel suo aspetto naturale, nel quale ogni elemento, aria, acqua, terra e fuoco, è contaminato da cancerogeni. Lo scontro fra le classi, in queste condizioni, non può che polarizzarsi, fino alla consapevolezza che i capitalisti sono incompatibili con la sopravvivenza dell’umanità e l’intera umanità è incompatibile con la classe dei capitalisti.
Di fronte a ciò non abbiamo altra via che sbarazzarci del capitalismo quanto più rapidamente possibile. Le masse proletarie hanno già lo strumento adatto per condurre questa battaglia. È il loro partito rivoluzionario, la creatura che Trotsky ha creato in anni di implacabile e lucida lotta rivoluzionaria a capo della classe operaia: la Lega internazionale dei lavoratori - Quarta Internazionale, di cui il Partito di alternativa comunista è l’espressione in Italia.
Socialismo o barbarie!

Note
Mi corre l’obbligo di ringraziare per la disinteressata collaborazione alla ricerca delle fonti bibliografiche il prof. Isaia Sales, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia presso l’Università Suor Orsola Benincasa, Napoli.
1) Gimbe, Report 7/2019. Il definanziamento 2010-2019 del ssn
2) Corte dei Conti. Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica. Roma, 29 maggio 2019: pag 234-239.
3) Questioni di economia e finanza, n. 427, marzo 2018.
4) Presentazione del Rapporto svimez 2019 sull’economia e la società nel mezzogiorno
5) Prof. Gianfranco Viesti, Gli investimenti pubblici nella sanità italiana 2000-2017: una forte riduzione con crescenti disparità territoriali
6) Rimandiamo all’articolo di Alberto Madoglio, La pandemia è la prova del fallimento del capitalismo pubblicato sul nostro sito

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