Partito di Alternativa Comunista

PDL E PD: CAMBIA UNA LETTERA

PDL E PD: CAMBIA UNA LETTERA
Sistema elettorale e alternanza borghese
 
 
di Valerio Torre
 
Chi pensava che la nascita del Partito Democratico (Pd) di Walter Veltroni non avrebbe avuto conseguenze nel panorama politico italiano ha sicuramente preso un abbaglio. L’aggregazione fra gli eredi del Pci e della Dc ha scatenato una serie di reazioni, il cui esito è rappresentato da una ricomposizione su larga scala delle forze politiche che hanno agito in questi anni sul palcoscenico del bipolarismo della c.d. “Seconda repubblica”.
Un po’ di ripasso della cronaca degli anni scorsi
La grande borghesia, approfittando del crollo per via giudiziaria di un sistema travolto dalla corruttela e dagli scandali che diedero il via all’indagine denominata “Mani pulite”, decise che il quadro di grande instabilità politica, che determinava il rapido succedersi dei governi limitandone l’azione, doveva essere cambiato: solo coalizioni stabili e durature potevano portare avanti le “riforme” che le interessavano (liberalizzazioni, privatizzazioni, cancellazione dello stato sociale, flessibilità dei lavoratori, depotenziamento della contrattazione collettiva, ecc.). Il sistema elettorale tendenzialmente proporzionale allora vigente venne così sostituito da uno maggioritario in grado di favorire la nascita e l’alternanza di due poli che dovevano poi contendersi l’esercizio del governo (sempre, ovviamente, nell’interesse della borghesia capitalistica).
Nel corso degli anni alcune modifiche sono state introdotte al fine di spingere sempre più verso il maggioritario, rendendo marginale la quota di proporzionale che era rimasta in vigore nel susseguirsi delle varie leggi elettorali. E in effetti, in un modo o in un altro, il bipolarismo ha attecchito in Italia, tanto che è stato introiettato dalla stragrande maggioranza dell’elettorato.
Tuttavia, per complesse ragioni che non è possibile qui indagare, questo bipolarismo, basato per lo più su coalizioni non omogenee di partiti, pur determinando un tendenziale grado di stabilità dei governi mai visto prima nella storia repubblicana, si è rivelato non all’altezza dei disegni della borghesia, a causa soprattutto del livello di litigiosità fra i partiti e – com’è nel caso dell’attuale governo Prodi – dello scarto minimo di seggi parlamentari fra i due poli, che rende problematica e incerta l’approvazione di ogni provvedimento legislativo.
È parso dunque evidente al capitalismo nostrano che si sarebbe potuto raggiungere l’obiettivo della stabilità e della governabilità non già con alchimie istituzionali, ma con una semplificazione del quadro politico: alle cui forze, una volta assestatosi il processo di scomposizione e ricomposizione, assegnare il compito di ridisegnare l’assetto della legge elettorale. L’evoluzione in senso liberale dei Ds ha facilitato questo progetto: è in questa cornice – estremamente sintetizzata per ragioni di spazio – che deve essere letta la nascita del Pd; che, per i motivi esposti, ha determinato un terremoto, sia a sinistra (con l’aggregazione dei partiti della “Cosa rossa” che stanno varando una nuova formazione politica, “La Sinistra”), sia a destra.
 
Il partito del “predellino”
Lo scorso 18 novembre, Silvio Berlusconi, immerso in un bagno di folla in Piazza San Babila a Milano, salendo sul predellino della sua auto ha annunciato la nascita del nuovo partito del centrodestra – il “Popolo della Libertà” (Pdl), come successivamente un sondaggio ha proclamato – decretando la fine dell’esperienza della Casa delle Libertà (e, forse, di Forza Italia).
Il coup de théâtre berlusconiano ha sullo sfondo (anche per le modalità con cui si è prodotto e sta continuando a perpetuare i propri effetti) altre ragioni più contingenti di quelle d’insieme che abbiamo tentato sinteticamente di esaminare, ma comunque ad esse strettamente collegate, come il particolare sta al generale.
È un fatto che, se il governo Prodi è andato via via logorandosi in un anno e mezzo come le ultime vicende parlamentari provano, nondimeno ha dimostrato – sia pure per le peculiari circostanze in cui si è trovato a svolgere la sua azione – un’insospettata capacità di resistenza: il combinato disposto fra l’estrema debolezza del governo al Senato e, sullo sfondo, il “pericolo del ritorno della destra” nel caso di caduta di Prodi ha ogni volta rinsaldato gli equilibri al momento del voto sui vari provvedimenti – anche quelli più indigesti – facendo sì che l’azionista di maggioranza del governo, la grande borghesia industriale e finanziaria, ottenesse tutto quanto (e, forse, più) aveva messo in conto quando aveva puntato sul centrosinistra scaricando Berlusconi. La cui strategia, simmetricamente, tutta tesa a dare a Prodi la famosa “spallata” si è progressivamente depotenziata fino a rivelarsi completamente fallimentare.
Di votazione in votazione, la promessa fatta da Berlusconi agli alleati (“cadono, vedrete che cadono”) si è rivelata di valore pari alle barzellette che è solito raccontare alle convention di Fi: con la non lieve differenza che, almeno, quelle facevano ridere.
E invece, di ridere, i suoi alleati – a partire dall’Udc di Casini che già da tempo si era smarcata dalla Cdl; ma anche An di Fini maturava una progressiva insofferenza verso la leadership berlusconiana – non avevano affatto voglia. Per strade diverse, Fini e Casini si sono ritrovati a pensare che con un generale così non si va da nessuna parte: e Berlusconi, che l’ha capito e che non ama essere messo in discussione, ha colto al volo l’occasione che gli si è presentata – la necessità-opportunità di un’aggregazione di forze politiche nel senso cui abbiamo prima accennato – per tirare fuori un “colpo di genio”: l’annuncio della nascita di un nuovo partito, liquidando l’esperienza della Cdl e, soprattutto, i suoi riottosi alleati. Non solo: ma rilanciando e rendendo indiscutibile la sua leadership a destra accreditandosi quale unico interlocutore sulla riforma elettorale con il segretario del neonato Pd, Walter Veltroni. Insomma, nel giro di poche ore, un Berlusconi nell’angolo, quasi irriso da alleati che addirittura iniziavano seriamente a pensare alla sua successione, si è di nuovo inarrestabilmente catapultato al centro della scena politica borghese.
La trovata di Berlusconi ha completamente spiazzato Fini e Casini, apparsi da subito balbettanti e incerti o sulla difensiva: essi non sono stati in grado di leggere i segnali – o sono stati incapaci di trarne le dovute conseguenze – che da tempo erano comparsi. Ad esempio, la nascita, a destra di An, della nuova formazione di Storace “La Destra” è stata una manovra non solo benedetta, ma esplicitamente diretta da Berlusconi: che ha indebolito Fini, contemporaneamente isolandolo dai settori più identitari della destra e, quindi, prosciugandogli l’acqua di quello stagno. E, d’altro canto, Berlusconi non ha dimenticato di coprirsi al centro, accreditandosi direttamente con le gerarchie vaticane: non è un caso che, annunciando la nascita della sua nuova creatura, abbia fatto riferimento ai “valori cristiani” di cui il Pdl sarebbe permeato. Detto fatto: il giorno dopo è stato ricevuto dal cardinale Bertone, segretario di Stato del Vaticano. E ancora, va sottolineato che l’esponente dell’Udc, Giovanardi, è immediatamente transitato, armi e bagagli, nel nuovo partito del Cavaliere: che ha voluto avvertire Casini di essere in grado di succhiargli via qualche pezzo.
Il trattamento riservato alla Lega Nord, invece, è stato parzialmente diverso: il partito di Bossi deve ritenersi anch’esso “avvisato”; ma il rapporto stretto con Berlusconi, il fatto che la Lega non mostrava gli stessi segni di insofferenza degli altri due alleati, la propensione di questo partito ad essere una forza tutto sommato “regionale”, la convinzione di Berlusconi di poter utilizzare quell’elettorato ammansendolo con l’evanescente ma sempre apprezzata promessa di un ipotetico “federalismo”, sono tutte circostanze che fanno ritenere che quel partito è al tempo stesso “mezzo salvato”.
Lo conferma, come ora vedremo, anche la discussione sul sistema elettorale a venire.
 
L’inizio del confronto: Berlusconi capitalizza subito un piccolo utile
Appena Berlusconi è uscito allo scoperto, Veltroni, nella consapevolezza che la partita a carte della riforma del sistema elettorale andava giocata proprio (e in sostanza unicamente) con Berlusconi, ha immediatamente fatto partire le convocazioni per il confronto.
Nel comune interesse degli sfidanti del futuro scenario, è stata decretata la fine di una stagione nella quale Berlusconi non avrebbe preso neanche un caffè al bar con “i comunisti”; mentre, entrambi gli interlocutori, fino a ieri appassionati “ultrà” del maggioritario, hanno amichevolmente preso a discutere sulla base comune del sistema proporzionale. Fra i due è stato tutto un ammiccamento, una “intesa cordiale”, grazie alla quale il leader di Fi ha recuperato uno smalto e, soprattutto, un protagonismo, che sembravano perduti per sempre. Va detto per inciso che, già che c’è, Berlusconi si ripromette di ottenere anche un altro risultato dall’incontro già svoltosi e dai futuri contatti con Veltroni: tenere cioè sotto controllo da vicino la spinosa questione della riforma delle televisioni, che costituisce per lui sempre un problema urgente e un lato debole, soprattutto dopo il nuovo scandalo (denominato “Raiset”) delle intercettazioni telefoniche dalle quali è emerso il segreto di Pulcinella. E cioè che in Italia l’intero sistema radiotelevisivo e dell’informazione è da anni interamente controllato e diretto proprio da Berlusconi, nel cui interesse manager e direttori di rete della Rai lavoravano, in ciò eterodiretti dagli omologhi di Mediaset (o quantomeno in accordo con loro).
Dunque, un ulteriore vantaggio per il Cavaliere, quasi un “sottoprodotto” della nuova stagione di confronto sulle riforme.
 
Verso quale sistema elettorale?
Non è facile dirlo, per una serie di ragioni che cercheremo di analizzare.
1) Quello che è certo è che la base di discussione fra i due leader – ma anche fra Veltroni ed i segretari degli altri partiti convocati – è quel sistema misto tedesco-spagnolo obbrobriosamente definito “Veltronellum”: si tratta di una riforma che, su un impianto tendenzialmente proporzionale senza premio di maggioranza, innesta dei correttivi relativi al ridisegno delle circoscrizioni dissimulando così una soglia di sbarramento ben più alta di quella che ufficialmente è dichiarata. Alcune simulazioni dimostrano che si creerebbero delle soglie occulte di sbarramento intorno al 7-8% (“neanche nella Russia di Putin!”, ha appropriatamente commentato il senatore di Sinistra democratica, Cesare Salvi).
Da un simile sistema trarrebbero beneficio esclusivamente i grandi partiti e – poiché verrebbero ridimensionate le circoscrizioni e ad esse applicato lo sbarramento – le forze politiche con forte radicamento territoriale, come ad esempio la Lega Nord.
L’applicazione di queste regole produrrebbe un ulteriore effetto: la necessità dei partiti piccoli di aggregarsi per creare formazioni in grado di affrontare un meccanismo così penalizzante. Ecco la ragione per cui Fausto Bertinotti è tutto gongolante per una riforma del genere: perché essa costringerebbe gli altri partiti della “Cosa rossa” a dismettere le resistenze (soprattutto Verdi e Pdci) e, finalmente, a confluire insieme a Sd in una nuova forza politica con il Prc nel ruolo di partito egemone. E non è un caso che quest’ipotesi veltroniana di sistema elettorale abbia già da tempo avuto un sostanziale via libera proprio da Bertinotti, benché nel gioco delle parti Rifondazione continui pubblicamente a manifestare la propria predilezione esclusiva per il proporzionale tedesco “puro”.
2) Un’altra incognita è costituita da Prodi. Non è un mistero per nessuno che la nascita del Pd, l’affermazione plebiscitaria di Veltroni e la sua propensione a presentarsi come il vero leader del centrosinistra, non abbiano reso un buon servizio a Prodi che oggi appare come un premier “a tempo”, un utile gestore della cosa altrui. È l’anomalia di un governo “bicipite”, con un primo ministro “ufficiale” (Prodi) ed uno “occulto” (Veltroni). Né va dimenticato che il capo del governo è sempre stato un fautore del maggioritario, e anzi ha costruito la sua carriera politica proprio su tale sistema, dopo che il proporzionale venne messo in soffitta. Prodi non ha quindi molto digerito l’iniziativa di Veltroni di intraprendere una consultazione con tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, sulla riforma del sistema elettorale: sia perché si è visto scavalcato da un possibile futuro premier; sia perché si è visto ridimensionato nell’importanza del ruolo (la riforma viene discussa su impulso del suo successore che assume un ruolo politico centrale e poi lasciata gestire nei passaggi parlamentari a lui, cui viene attribuito un ruolo puramente notarile); sia, infine, perché si è visto sconfessato dall’iniziativa di Veltroni di parlare direttamente (da leader a leader) con Berlusconi, mentre Prodi non lo nomina neanche nei suoi discorsi.
L’insoddisfazione di Prodi per essere stato tenuto fuori ed emarginato trova la sua lettura nella candidatura ad essere “garante” dei piccoli partiti della coalizione di governo che temono un sistema elettorale del genere che li farebbe scomparire: il fatto di aver convocato un vertice di maggioranza sulla riforma elettorale rappresenta il disperato tentativo del premier di rientrare in una partita che lo vede solo spettatore.
Potremmo sbagliare, ma allo stato la mossa di Prodi non sembra in grado di sortire grandi risultati. Tuttavia, il capo del governo non è isolato nella sua posizione: oltre all’appoggio dei “piccoli” dell’Unione, ha dalla sua quello di schiere di intellettuali che lanciano appelli per il mantenimento del maggioritario. È un fatto che Il Sole 24 Ore del 6 dicembre dia un ampio spazio a tale rivendicazione, sebbene il giornale di Confindustria abbia sinora mantenuto (e continui a mantenere) un’opinione sostanzialmente equidistante nella disputa fra maggioritario e proporzionale, privilegiando il risultato della “stabilità e della governabilità”.
Va rimarcato che l’intervento “a gamba tesa” di Prodi in una discussione che lo vede ai margini, e nella quale egli tenta di rientrare per sovvertire l’intesa su un tendenziale sistema proporzionale fra Veltroni e Berlusconi con la benedizione di Bertinotti, spiega anche l’intervista di quest’ultimo su Repubblica: intervista con la quale il presidente della Camera recita il de profundis del governo Prodi. È evidente che l’intervento di Prodi scompagina il disegno bertinottiano di utilizzare il sistema proporzionale come grimaldello per vincere le ultime resistenze degli alleati della “Cosa rossa” rispetto alla nascita della nuova formazione politica e può configurare un ostacolo oggettivo per questo processo aggregativo. Potenza dell’istinto di autoconservazione del Prc: neanche le vicende parlamentari del protocollo sul welfare, in grado – quelle sì – di liquidare il governo Prodi, hanno potuto tanto!
3) Infine, va considerata l’incognita del referendum. Com’è noto, verso la fine di gennaio prossimo la Corte costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità dei quesiti referendari in senso ultramaggioritario promossi da Guzzetta, Segni ed altri. Per questa ragione i tempi stringono: ove le forze politiche non trovassero l’accordo su un testo di riforma del sistema elettorale, nella prossima primavera si andrebbe al referendum.
Sennonché, tale consultazione appare come una partita a poker in cui tutti bluffano: sia quei partiti che dicono di non temerla (e anzi la usano come una pistola puntata alla tempia di chi si oppone all’impianto veltroniano del confronto sulla riforma del sistema elettorale: è il caso del Pd che, con il vicesegretario Franceschini, afferma “l’alternativa non è tra una buona mediazione e il proprio modello preferito. No. L’alternativa è tra una buona mediazione o niente. E, quindi, il referendum”); sia quei partiti che invece la avversano e sarebbero pronti anche a far cadere il governo pur di non affrontarla (i “piccoli” dell’Unione).
Corollario dell’affermazione riportata di Franceschini è di ritenere tendenzialmente (ma fondatamente) impraticabile l’ipotesi di un proporzionale alla tedesca “puro”, ad oggi patrocinato solo dal Prc (per le stesse ragioni per cui si “accontenta” del tedesco-spagnolo, che costituisce per i bertinottiani un’ottima subordinata) e dall’Udc (che vedrebbe con questo sistema il coronamento del sogno di far nascere la “Cosa bianca”, cioè l’aggregazione di una consistente forza di centro, in grado di condizionare ogni ipotesi di coalizione: esattamente la ragione per cui un simile sistema è aborrito sia da Veltroni che da Berlusconi, i quali, sia che vincesse l’uno, sia l’altro, verrebbero di fatto ricattati da una formazione del genere, che sarebbe indispensabile più di ogni altra per la formazione di un governo).
 
E se passasse il modello di Veltroni?
È chiaro che, per quanto appena detto, siamo in presenza solo di un’ipotesi. Che però appare verosimile.
Se venisse approvata la riforma del sistema elettorale nel senso proposto da Veltroni (il modello tedesco-spagnolo), si andrebbe verso la fine del “bipolarismo all’italiana” e nella direzione di un bipartitismo in cui due grosse formazioni si scontrerebbero elettoralmente senza dovere previamente chiudere delle alleanze con partiti in grado di limitarne, poi, l’azione di governo.
Si potrebbe cioè determinare uno scenario in cui due grandi partiti (il Pd ed il Pdl) si contenderebbero il campo ed avrebbero ampia libertà di movimento per il dopo-elezioni: infatti, la caratteristica di tale sistema è data dal fatto per cui non è obbligatorio formare prima della competizione elettorale la futura coalizione, che invece può essere creata dopo il risultato, direttamente in parlamento, tessendo in quella sede le alleanze.
Ciò consentirebbe alla “Cosa rossa” di verificare ex post la possibilità di formare una coalizione con il Pd ed entrare quindi in un’eventuale maggioranza; oppure valutare che è meglio restare all’opposizione.
Consentirebbe al Pdl di fare un’analoga valutazione con quel che resta dell’Udc orfana della “Cosa bianca” e di una An ridimensionata (con la Lega c’è già oggi in mente di fare un patto federativo).
Ma consentirebbe addirittura un’ipotetica – eppure non del tutto remota – possibilità di Grande Coalizione alla tedesca con un governo Pd-Pdl.
Come si vede, il modello Veltroni soddisferebbe larga parte delle forze politiche attualmente esistenti, obbligandone altre a prendere decisioni che possano di fatto salvaguardarle.
Ma pensiamo che in definitiva sia la grande borghesia a potersi dire a ragione soddisfatta da una simile ipotesi, che può assicurare quella “stabilità e governabilità” che essa chiede per il raggiungimento dei propri scopi. In questo senso, la nuova “discesa in campo” di Berlusconi viene dal capitalismo positivamente valutata perché potenzialmente in grado, in un costante confronto col Pd in un tendenziale quadro di bipartitismo, di traghettare senza traumi l’Italia verso un’ipotesi di Terza repubblica, per una nuova stagione di profitti: è questo – crediamo – il senso di quanto ripetutamente affermato da Montezemolo, e cioè che l’Italia non è governata da dodici anni.

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