Partito di Alternativa Comunista

Sul nuovo libro di Piketty Capitale e ideologia o ideologia del Capitale?

Sul nuovo libro di Piketty


Capitale e ideologia


o ideologia del Capitale?

 

 

di Alberto Madoglio

 

 

 

A sei anni dalla pubblicazione della sua monumentale opera, Il capitale del XXI secolo, lo studioso francese Thomas Piketty ha dato alle stampe un nuovo libro dal titolo Capitale e ideologia.
Il primo libro ha avuto una risonanza mondiale con oltre 2 milioni di copie vendute (qualcuno, con fare maligno, ma forse non sbagliandosi, l’ha definito il libro più venduto e meno letto della storia) e ha fatto dell’autore una specie di rock star dell’economia: recensioni entusiastiche, partecipazioni a eventi culturali di vario tipo.
È molto probabile che anche questa ulteriore fatica (1200 pagine, più di Guerra e Pace, come sottolineano i maligni di cui sopra) avrà lo stesso successo in termini di vendite e contribuirà ad affermare ed estendere la fama di grande teorico del suo autore.
Capitale e ideologia è stato appena stampato per i tipi della Nave di Teseo, per questa ragione siamo impossibilitati a farne una critica dettagliata, cosa a cui porremo rimedio in futuro. Tuttavia alcune riflessioni possono già essere fatte.

 

Vecchio riformismo ammantato di novità

Da quello che si può apprendere dalle varie interviste rilasciate (Il Manifesto, Corriere della Sera), il libro non si differenzia dall’impianto dell’opera precedente nella quale il messaggio di fondo è che il Capitale di Marx sarebbe un testo superato. L’analisi del capitalismo fatta da uno dei due fondatori (con Engels) del socialismo scientifico poteva andare bene nel XIX secolo ma per il XXI sarebbe inadeguata.
Un dato che pochi conoscono ma che dovrebbe quanto meno instillare qualche dubbio rispetto alla nuova teoria, se così si può chiamare, di Piketty è che l’autore ammette di non aver letto l’opera di Marx. Ovviamente nessuno è obbligato, neanche se si considera un economista di sinistra, a leggere e comprendere i libri dell’opera fondamentale del rivoluzionario di Treviri. Quello che suona strano è che qualcuno si prenda la briga di confutare una teoria di un qualche campo dello scibile umano, senza aver almeno tentato se non di comprenderla almeno di leggerla o persino... di sfogliarla...
Per il Capitale Marx non solo analizzò una infinita quantità di dati statistici, ma lesse, studiò e infine confutò tutti gli studi dei maggiori economisti classici borghesi, da Adam Smith in poi.
Ma al di là di questo dettaglio, la teoria (se vogliamo chiamarla così) di Piketty sulla inutilità del Capitale per l'oggi si basa su un altro assioma infondato: secondo Piketty il capitalismo è, pur con i suoi limiti, il migliore dei mondi possibili, che necessita al massimo di essere regolato e limitato nell’interesse della collettività (1), come dichiarò alcuni anni fa.
Oggi il suo pensiero non si è modificato. In occasione della presentazione dell’edizione italiana del suo libro ha affermato che il capitalismo deve venir controllato in una sorta di «socialismo partecipato». Idea in effetti non proprio originale se si considera che già la proponeva circa novanta anni fa Carlo Rosselli in un saggio dal titolo Socialismo liberale.
A suo dire, il problema centrale del sistema economico capitalistico non risiederebbe nello sfruttamento del lavoro salariato, nell’appropriazione da parte dei capitalisti di pluslavoro non retribuito agli operai, nell’accumulazione e nella valorizzazione di capitale che inevitabilmente conducono, con periodicità sempre più breve, a vere o proprie crisi di sovra-produzione, ma nella iniqua distribuzione della ricchezza tra capitalisti e salariati, a favore dei primi e a discapito dei secondi.(2)
Questa distribuzione iniqua dipenderebbe dalla sconfitta ideologica (da qui il titolo del nuovo libro) subita dal mondo del lavoro a partire dagli anni Settanta e giunta al suo punto di svolta con la presidenza di Ronald Reagan negli anni Ottanta. In quel periodo avrebbe preso forma un pensiero che anziché dare rilievo e importanza alla giustizia sociale, avrebbe privilegiato il merito. La conseguenza concreta, prodottasi negli Stati Uniti ma poi generalizzatasi in ogni Paese, sarebbe stata la riduzione del prelievo fiscale sui redditi alti e sui grandi patrimoni. A questa «nuova Ideologia» si sarebbero poi adeguate le organizzazioni tradizionali del movimento operaio, che una volta giunte al governo, non hanno modificato questo stato di cose.
Arrivati a questo punto del Piketty-pensiero una domanda sorge spontanea. Come mai questo cambio di ideologia si sarebbe verificato a cavallo degli anni 70/80 e non nel decennio o nei decenni precedenti?
Nel pieno del cosiddetto «trentennio d’oro», che iniziò con la fine della seconda guerra mondiale, il capitalismo mostrò tutta la sua faccia brutale: guerra di Corea, del Vietnam, colpi di Stato militari per abbattere regimi nazionalisti borghesi non completamente proni all’imperialismo ecc. Non eravamo in presenza quindi di un capitalismo dal volto umano. Solamente che fino alla crisi economica dei primi anni Settanta, il tasso di redditività del capitale consentiva al proletariato di ottenere, come sotto-prodotto di lotte e processi rivoluzionari, delle riforme che ne miglioravano le condizioni materiali.
Dopo il ‘73 questo spazio si è chiuso definitivamente e quindi il capitalismo per recuperare i profitti persi ha dovuto dare il via a quel periodo di «riforme neo-liberali» di distruzione dello stato sociale che non si è ancora concluso. Hanno facilitato questo percorso anche la sconfitta di tutte le esperienze rivoluzionarie che si sono verificate in quell’epoca: Portogallo, Iran, Nicaragua. Enormi sconfitte del movimento operaio, minatori in Gran Bretagna, lotta alla Fiat nell’autunno 1980. Ulteriori vittorie dell’imperialismo: invasione di Panama e Grenada, guerra delle Malvine e la più importante, re-incorporazione degli Stati operai degenerati o deformati nel mercato capitalistico mondiale.
Sono state quindi le mutate condizioni economiche e i rapporti di forza tra le classi a livello mondiale che hanno creato le basi sulle quali fondare questa nuova ideologia. Non è stato il contrario.
Bisogna allo stesso tempo ricordare che già Marx nel 1865 scriveva che «lo sviluppo dell’industria moderna deve far pendere la bilancia sempre di più a favore del capitalista». Si vedano ad esempio le medie decennali tra valore della produzione e salario nell’industria manifatturiera americana dal 1861 al 1965. Ipotizzato un riferimento pari a 100 nel 1861, si arriva nel 1965 a 450 per il valore della produzione e a 290 per il salario, con un piccolo rallentamento del gap dalla fine della seconda guerra mondiale, per le ragioni sopra citate, alle quali bisogna senza dubbio aggiungere il fatto che dalla fine degli anni ‘40 un terzo e oltre del pianeta fu sottratto alle leggi dello sviluppo capitalista. La presenza dell’Urss e degli Stati operai deformati, simboleggiando un’alternativa concreta al capitalismo, costringevano la borghesia a fare concessioni alla classe operaia per evitare che questa fosse spinta a lottare anche nei Paesi imperialisti per una alternativa di società.(3)

 

Cui prodest?

Le domande centrali da porsi sono queste: davvero come pensa Piketty il capitalismo costituisce l’ultima frontiera dell’umanità; e, con qualche accorgimento, sarebbe possibile garantire nel capitalismo un’equa spartizione del benessere tra padroni e lavoratori?
La nostra risposta è no ad entrambe le domande. Il fallimento della gestione burocratica e stalinista di un’economia pianificata, che motiva Piketty a rifiutare un’opzione anticapitalista, è per noi la prova non della sconfitta del socialismo ma dell'ideologia stalinista del «socialismo in un Paese solo», copertura ideologica di interessi burocratici anti-operai che hanno diffuso nel movimento operaio l'idea della possibilità di una coabitazione pacifica degli Stati operai con l'imperialismo nel mondo e di una collaborazione di governo dei «comunisti» con la borghesia nei Paesi capitalisti.
Così come copertura ideologica di interessi materiali delle burocrazie riformiste è il progetto di riformare il capitalismo nel senso di garantire una crescita indefinita dei profitti alla borghesia in parallelo con le retribuzioni dei lavoratori.
Qui, come segnala l'economista marxista Michael Roberts sta la maggiore debolezza del pensiero di Piketty. Secondo Piketty il capitalismo è un sistema in cui l’aumento del profitto è costante e le crisi non sono causate dalle dinamiche intrinseche a questo modo di produzione ma dovute a perturbazioni esterne (guerre, carestie, speculazioni finanziarie). Ovviamente se il sistema è di per sé sano, garantisce un aumento costante dei profitti (ricchezza) cioè la base materiale per garantire benessere generalizzato, tramonta ogni necessità di sostituirlo con un altro modo di produrre.
Idea che si basa su presupposti totalmente errati. La legge fondamentale, analizzata da Marx, e provata empiricamente, cioè quella della caduta tendenziale del saggio di profitto, l’analisi del capitalismo come di un sistema che tende sistematicamente alla crisi, sparisce negli studi e nelle spiegazioni dell’economista transalpino. Oltre al Capitale di Marx, e in particolare il libro terzo, ci sono diversi saggi e studi statistici che ne confermano la validità, anche e soprattutto nell’epoca dell’economia imperialista decadente del XX secolo. (4)
Quello poi che più conta è che il capitalismo non può, perché dovrebbe negare la sua essenza, liberare l’umanità dalla schiavitù del lavoro salariato, garantire a tutti di dedicare un tempo sempre più ridotto all’attività lavorativa, consentendo così l’estensione del tempo libero (quello che Marx nei Grundisse definisce come il vero valore o pregio della società comunista).
Nel capitalismo i salariati sono obbligati a lavorare per vivere. Quelli che, al contrario, sono in un certo senso liberati da questa schiavitù, sono costretti a vivere nell’indigenza e nella precarietà più assoluta, come dei veri e propri reietti della società. La legge del valore, fin qui non ancora smentita, detta i tempi e i modi dello sviluppo economico, e sta a indicarci quanto il superamento per via rivoluzionaria di questo modo di produrre sia oggi più che mai attuale.
Su di un punto almeno concordiamo con Piketty, cioè sul fatto che sia giusto rivendicare l’introduzione di imposte fortemente progressive sul reddito e sui grandi patrimoni. Non però (come crede Piketty) con l’ottica di rendere più giusta e efficiente una società fondamentalmente disumana e irrazionale. Ma all'interno di un programma «transitorio» che conduca i lavoratori, partendo anche da simili rivendicazioni di buon senso, alla comprensione dell’ineluttabilità di una lotta rivoluzionaria per conquistare il potere, espropriare la borghesia e procedere nell’abbattimento del capitalismo su scala internazionale. Peraltro ritenere che il capitale possa accettare una simile riforma fiscale è una illusione tra le più ardite che ci sia mai capitato di sentire. In questo caso, come in molti altri, ci viene in soccorso il vecchio, ma sempre più attuale, Karl Marx: «(la classe operaia, ndr) non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti ma non contro le cause di questi effetti... Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia che scaturisce...dagli attacchi continui del capitale... essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società».(5)
A questo punto ci sarebbe da chiedersi perché venga dato così ampio spazio sui media borghesi a pseudo-teorie che nulla hanno di particolarmente originale e che sono state ampiamente confutate, a partire dall’uso errato dei dati su cui Piketty si basa.(6)
La risposta non è difficile: sono teorie che non infastidiscono le classi dominanti e anzi possono servire ai riformisti di ogni tipo per continuare a sostenere l'idea di una possibile riforma di un sistema irriformabile.

 

Socialismo o barbarie

Dalla crisi del 2007 fino ad arrivare allo sconquasso economico e pandemico dei giorni nostri, risulta sempre più evidente a centinaia di milioni di persone nel mondo come questa società sia ormai giunta al capolinea. E le classi dominanti ne sono forse più coscienti di quelle sfruttate. Terrorizzati dalle ribellioni di massa che da oltre un decennio fanno tremare i quattro angoli del globo, consapevoli che a causa dell’aggravarsi della crisi economica queste ribellioni diventeranno sempre più frequenti e radicali, cercano disperatamente di farci credere che il sistema abbia bisogno solo di una messa a punto. Se a sostegno della loro tesi possono arruolare un esponente considerato «di sinistra», ecco che il cerchio ha per loro trovato la sua quadratura.
Malauguratamente per loro gli sforzi letterari di Piketty e altri non cambiano la realtà. La lotta di classe è più forte di ogni teoria, vecchia o nuova, che voglia
mettere in archivio Marx, la rivoluzione proletaria e la necessità di un partito rivoluzionario.Per noi la difesa del marxismo è la difesa del solo programma che alla prova della storia si è dimostrato in grado di consentire al proletariato di spezzare definitivamente le catene dell’oppressione dello sfruttamento capitalista.

 

 

NOTE

1) Michael Roberts, “Unpicking Piketty”, Paper to sase, Conference, luglio 2015.

2) vedi nota 1

3) E. Mandel, Trattato marxista di economia, Edizioni Erre Emme, 1997, vol. I p. 249, “Nota supplementare sulla teoria dell’impoverimento assoluto”.

  1. Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Mimesis 2010.

(4) Guglielmo Carchedi e Michael Roberts, World in Crisis. A global analysis of Marx’s law of profitably, Haymarketbooks, in particolare i capitoli 3 e 4 di Josè A. Tapia e Esteban Ezequil Maito.

5) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, edizioni varie.

6) vedi nota 1

 

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