Una sola strada per salvare la scuola
pubblica dall'attacco del governo
LOTTA DURA E AD
OLTRANZA
di Fabiana
Stefanoni
"Ragazzi attenzione, ascoltate bene:
i 15 dell'indirizzo tecnico biologico vadano nell'aula due; i 10 dell'indirizzo
classico nell'aula tre e gli 8 dell'indirizzo linguistico nell'aula quattro:
attenti a non andare nel laboratorio di lingue perché quest’anno è inagibile, il
tetto sta crollando. Vi porto anche i saluti della vostra insegnante degli anni
scorsi che quest'anno purtroppo non lavora: la sostituisco io che quest'anno
farò 8 ore in questo istituto, perché nella scuola dove ho insegnato negli
ultimi trent'anni non riesco a completare l'orario".
La scuola per molti insegnanti e alunni quest'anno è cominciata così. Gli
effetti dei 50 mila posti di lavoro tagliati dal governo Prodi e del ministro
Fioroni si sono fatti sentire, sulla pelle dei lavoratori della scuola, degli
studenti e delle famiglie. E, come ci annuncia il nuovo ministro dell'istruzione
Gelmini, non è che l'inizio.
La scuola pubblica al
collasso
Quello che si prospetta nei prossimi
tre anni è il taglio di più di 100 mila ulteriori posti di lavoro, per un totale
di 160 mila tagli tra insegnanti e personale Ata. Mentre i giornali parlavano di
grembiulini e voti in condotta, alla fine di agosto per molti insegnanti precari
- convocati come ogni anno alla vigilia dell'inizio delle attività didattiche
per le assegnazioni annuali - decenni di precariato si sono trasformati in
disoccupazione perenne. Le cattedre a disposizione per le supplenze, nelle
scuole di ogni ordine e grado, si sono letteralmente dimezzate. Centinaia di
classi, anche afferenti a indirizzi diversi, sono state accorpate fino ad
arrivare a 33 alunni per classe.
I 200 mila precari, che da decenni
attendono l'assunzione in ruolo e su cui si regge buona parte dell'attività
didattica, sono diventati carne da macello di un governo che va all'incasso
senza nemmeno bisogno di ricorrere a licenziamenti: il lavoratore il cui
contratto è scaduto il 30 giugno non è un lavoratore, è un disoccupato che si
può lasciare sulla strada facilmente.
Quest'anno molti di noi sono rimasti a
casa, nell'attesa di qualche maternità o malattia per le supplenze. E' una
realtà che riguarda anche gli insegnanti di sostegno, che sono stati
drasticamente ridotti nonostante l'aumento del numero di studenti diversamente
abili. Per chi è riuscito a conservare una cattedra - seppure a costo di
trasferimenti e dislocazioni del lavoro su più scuole anche molto distanti tra
loro - è chiara la consapevolezza che si tratta di una magra consolazione e che,
già dal prossimo anno, lavorare sarà impossibile. Quella che fino a ieri era una
realtà contraddittoria fatta di dieci o venti anni di precariato prima
dell'assunzione in ruolo a 1200 euro al mese, oggi significa rinuncia a
qualsiasi prospettiva di assunzione: non lavorare per sei mesi significa perdere
punti e, di conseguenza, non lavorare mai più.
Tutto questo avviene - è bene
ricordarlo a chi, come la supermanager Brambilla, ci promette posti nel turismo
- dopo decenni di formazione, fatti di corsi di laurea, costosissime scuole di
specializzazione a frequenza obbligatoria, corsi di perfezionamento. Tutto
inutile: per centinaia di migliaia di precari si è semplicemente trattato di
fatiche sprecate. Ma le cose non sono rosee nemmeno per gli insegnanti in ruolo:
a parte gli stipendi da fame, sono sempre più frequenti i casi di trasferimenti
o completamento dell'orario in sedi lontane dal luogo di lavoro abituale in
conseguenza dei tagli.
Dal maestro unico al
sostegno: un vero e proprio massacro
Il decreto che ha trasformato la
situazione da drammatica a catastrofica è la cosiddetta "Finanziaria di mezza
estate": il decreto 133 che, oltre a prevedere il taglio di decine di migliaia
di posti di lavoro, riduce la scuola a un circo, danneggiando non solo gli
insegnanti ma anche le famiglie. Il decreto si viene a inserire in una realtà
già drammatica: nella scorsa legislatura, solo per fare un esempio, in
moltissime scuole sono saltati anche i più elementari corsi di recupero,
trasformati in interruzioni per più settimane dell'attività didattica mattutina
a danno di tutti gli studenti. Questo quello che ci aspetta col nuovo decreto,
oltre all'aumento a dismisura del numero di alunni per classe e ai già citati
tagli: la riduzione delle materie (con richiesta agli insegnanti in ruolo di
insegnare discipline di cui non sanno nulla!); la riduzione del numero di ore di
lezione; l'ulteriore riduzione degli insegnanti di sostegno; il taglio di 8
miliardi di euro di finanziamenti alle scuole pubbliche.
Ma la notizia che
ha fatto più scalpore - anche se, purtroppo, in realtà si tratta di una tra le
tante - è quella che riguarda la reintroduzione del maestro unico nella scuola
primaria, cosa che, nonostante le rassicurazioni del ministro, oltre a
comportare tagli consistenti tra il personale docente, comprometterà sia
l'attività didattica in generale, sia, più in particolare, il tempo pieno. Per
quest'ultimo, che rappresenta un'esigenza imprescindibile per le famiglie di
lavoratori, si parla di "disponibilità" varie ed eventuali che - com'è
prevedibile visto l'andazzo - si tradurranno nello smantellamento del tempo
pieno stesso.
Non contenta di questo sfacelo, la ministra promette che presto
le assunzioni sui posti vacanti avverranno su chiamata diretta dei dirigenti
(quelli che una volta si chiamavano presidi e che ora sono sempre più dei veri e
propri manager), con i prevedibili fenomeni di clientelismo che andranno a
penalizzare soprattutto i precari meno disponibili al supersfruttamento. Non
solo: se già il ministro Bersani, col precedente governo, aveva trasformato le
scuole in fondazioni con la possibilità di attingere finanziamenti dai privati -
con le conseguenti ingerenze da parte delle imprese del territorio, che possiamo
immaginare da quali fini didattici siano mosse! - oggi la Gelmini è decisa a
completare l'opera: la sua missione consiste nel trasformare gli istituti in
aziende tout court con consigli di amministrazione che organizzino la
gerarchizzazione: al vertice ci saranno i pochi fedelissimi (crumiri e
carrieristi) del dirigente pagati qualche briciola di più, tutti gli altri al
saranno destinati al macello.
La protesta cresce: comitati
e autogestioni
Ma la Gelmini - ministro
trentacinquenne molto più giovane di tanti precari che ora sono a casa ad
aspettare una chiamata per la supplenza - ha fatto i conti senza l'oste. Né i
lavoratori della scuola né gli studenti né le famiglie intendono accettare
passivamente questo massacro della scuola pubblica. In tutta Italia, si stanno
organizzando sit in, manifestazioni di protesta, assemblee autoconvocate di
lavoratori e genitori per organizzare la resistenza e chiedere il ritiro
immediato del famigerato decreto legge (che deve diventare operativo entro il 31
ottobre) e, soprattutto, per chiedere di invertire drasticamente la rotta. Le
assemblee sono partecipatissime in tante città: i precari della scuola, come i
lavoratori dell'Alitalia, ai quali si sentono vicini nell'assenza di prospettive
di lavoro o sopravvivenza, invocano lo sciopero a oltranza. I genitori, che nel
maestro unico vedono il rischio dello smantellamento del tempo pieno e che
vedono il disagio dei figli ammassati in classi di 30 alunni, sono solidali con
le rivendicazioni degli insegnanti. In alcune province stanno prendendo vita,
spontaneamente, esperienze di autogestione delle scuole che coinvolgono
insegnanti, lavoratori, studenti e famiglie. E' il caso, per fare solo uno dei
tanti esempi, di un istituto comprensivo (elementari e medie inferiori)
dell'Appennino bolognese, dove è nato un collettivo autonomo di lavoratori che
ha dato vita a un comitato permanente che intende coinvolgere in un percorso di
lotta ad oltranza sia le famiglie sia, soprattutto, gli altri istituti. E' un
istituto, come tanti, che è retto al 90% da lavoratori precari e che venerdì 19
settembre resterà chiuso.
Verso lo sciopero generale
E' infatti il 19 settembre un primo
importante momento di mobilitazione nazionale, con lo sciopero generale dei
precari della scuola e del pubblico impiego indetto dalla Cub. Altre
mobilitazioni dei precari, organizzate da altre sigle del sindacalismo
extraconfederale come i Cobas, sono in programma per le prossime settimane: è
necessario un maggiore coordinamento al fine di evitare che la dispersione delle
iniziative (magari per la mera volontà di autoconservazione di microburocrazie
sindacali ostili le une alle altre) si traduca in un punto a favore del governo.
Al contrario, occorre raccogliere attorno ad una piattaforma di lotta
indisponibile a compromessi al ribasso le energie che stanno crescendo tra i
lavoratori, fino ad arrivare allo sciopero generale del 17 ottobre, che deve
trasformarsi - nonostante i tentativi di "sabotaggio" più o meno intenzionale da
parte dei partiti della sinistra cosiddetta radicale (che organizza un corteo
l'11, pochi giorni prima) - in una grande giornata di mobilitazione dei
lavoratori contro il governo Berlusconi.
Dal 17 ottobre deve uscire un
messaggio chiaro: da una parte ci sono i padroni e il governo, che intendono far
pagare la crisi ai lavoratori; dall'altra ci sono i lavoratori, che la crisi non
vogliono pagarla. Occorre fin da subito costruire una massiccia campagna di
informazione e propaganda nei luoghi di lavoro per fare in modo che il successo
dello sciopero generale del 17 ottobre segni l'inizio di un percorso di lotte,
fino a un grande sciopero unitario e di massa che sia in grado di cacciare il
governo Berlusconi.